lunedì 23 aprile 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
Si faceva chiamare cheikhIbraihim, conosceva l’arabo, viveva tra Aleppo e Damasco, spacciandosi per un mercante. Divenne musulmano dopo aver studiato il Corano e l’Oriente islamico, ma il primo - e forse unico - amore della sua breve carriera di esploratore (morì al Cairo a soli 33 anni di età) fu l’Africa. Nel 1809 mise a punto una spedizione che avrebbe dovuto cercare le sorgenti del fiume Niger, missione che fu lo scopo della sua vita. Non arrivò mai alle fonti che sgorgano dai monti Loma, tra Guinea e Sierra Leone. Ma girovagando per Siria, Giordania ed Egitto alla ricerca di carovane in viaggio verso il cuore dell’Africa nera, incappò in alcune scoperte sensazionali.Percorrendo la strada tra Damasco e Il Cairo, passando per la Giordania (la cosiddetta "via dei re" che raggiunge Aqaba e poi, attraverso il Sinai, la capitale egiziana), Johann Ludwig Burckhardt (questo il vero nome del nostro esploratore), aveva sentito favoleggiare di una mitica città perduta stretta tra le rocce di Wadi Musa, una località dall’indubbio sapore biblico. Si era allora finto un pellegrino sulla strada della Mecca e aveva ottenuto di essere accompagnato alla tomba che la tradizione identifica con quella del profeta Aronne per sacrificare un capretto, alla sommità di una vetta chiamata Jebel Haroun. Era il 22 agosto 1812: insieme ad una guida locale cheikh Ibrahim potè penetrare nel siq, il lungo canyon naturale che porta al cosiddetto Tesoro del Faraone (la tomba nabatea immortalata nel celebre film Alla ricerca dell’Arca perduta) e che costituisce l’ingresso dell’antica città dei nabatei. Il naturalista e orientalista di origini svizzere (formatosi però in Germania, Austria e Inghilterra, con una specializzazione a Cambridge), probabilmente sopraffatto da ciò che vedevano i suoi occhi, non riuscì neppure a fare qualche schizzo delle meraviglie della "città rosa", come usavano i viaggiatori del tempo. Tuttavia diffuse la notizia tra gli studiosi e gli europei presenti in Medio Oriente ed in Egitto e ne scrisse nel suo diario di viaggi intitolato Travels in Syria and the Holy Land, pubblicato dopo la sua morte.L’esplorazione delle fonti del Niger restava però la sua priorità. Risalì allora il Nilo, e tra le sabbie di Dongola scoprì quasi per caso il tempio di Abu Simbel; viaggiò attraverso la Nubia, raggiunse Mecca e Medina, esplorò la penisola del Sinai. Fiaccato da febbri e dissenteria, fu costretto a ritornare al Cairo, dove morì nel 1817. Venne sepolto in un cimitero musulmano, con il nome arabo che lo aveva accompagnato nelle sue peregrinazioni in Medio Oriente e Nordafrica.Già qualche anno dopo la sua morte, le prime missioni archeologiche iniziarono a lavorare a Petra, portando alla luce i resti dell’epoca idumea, i tesori del periodo nabateo, la città romana, le rovine dell’epoca bizantina, le fortificazioni dell’epoca crociata.
«Ci sono pochi siti archeologici al mondo più famosi di Petra», spiega padre Eugenio Alliata, archeologo dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme. «In seguito alla sua riscoperta, nel 1812, la fama di questa città perduta è andata sempre più crescendo, e così anche la nostra conoscenza dei nabatei, la popolazione che ha praticamente creato questa realtà». Venuti dal deserto nel VI secolo a.C., i nabatei trasformarono la città, difesa da una chiostra di montagne che la rendono inaccessibile, prima in un centro di transito per le carovane impegnate a trasportare le spezie, le gemme e gli ori dell’Oriente verso il Mediterraneo. Infine nella capitale di un regno che rivaleggiò per cultura e ricchezze con le città ellenistiche (IV-I secolo a.C.) fino alla sottomissione da parte dei romani sotto l’imperatore Traiano (106 d.C.).Visitare oggi Petra, a 200 anni dalla sua restituzione al mondo, con i suoi monumenti, i suoi palazzi, i suoi teatri, i suoi templi, significa spalancare gli occhi su una civiltà che ha saputo trasformare il deserto in un luogo vivibile, attraverso una sapiente gestione delle risorse idriche. Significa accostarsi ad una religione pre-islamica (i nabatei erano politeisti) affascinante e per molti versi misteriosa. Ma ci permette anche di accostarci ad un contesto geografico dove sono continui i richiami biblici e dove si formò una antica e fiorente comunità cristiana. «Giudicando dalle fonti storiche e dai resti archeologici - prosegue padre Alliata - il cristianesimo dovette introdursi abbastanza presto nella regione, forse già prima di Costantino (IV secolo d.C.), continuare ancora per qualche tempo dopo l’arrivo dell’islam (634 d.C.), e riprendere durante l’epoca crociata (XII secolo) con la costruzione di castelli sia in Petra medesima che nella vicina Shobak».
Tra i ritrovamenti più importanti in ambito cristiano, la scoperta, in una stanzetta laterale della basilica, di 152 rotoletti di papiro: contratti commerciali, moduli di tasse, promesse di matrimonio, dove i nomi delle persone manifestano l’influenza della tradizione biblica sovrapposta all’eredità nabatea. «Petra - scrisse Lawrence d’Arabia un secolo dopo le imprese di Burckhardt - è il più bel luogo della terra. Non per le sue rovine, ma per i colori delle sue rocce, tutte rosse e nere con strisce verdi e azzurre, quasi dei piccoli corrugamenti, e per le forme delle sue pietre e guglie, e per la sua fantastica gola, in cui scorre l’acqua sorgiva e che è larga appena quanto basta per far passare un cammello». Ancora oggi, per essendo un miracolo fragile (le minacce vengono soprattutto dall’incedere del tempo e dai fenomeni dell’erosione), per le decine di migliaia di viaggiatori che la affollano ogni anno la magia si ripete.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: