lunedì 16 aprile 2012
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Un amico mi telefona e dice: «La sai l’ultima?». Sto al gioco e rispondo di no. «Camilleri ha scritto un libro su Persico». Dopo aver fatto un saltino sulla sedia, con aria incredula chiedo: «Ma chi, Persico Edoardo, il critico morto nel 1936 in circostanze ancora oggi poco chiare?». L’amico, che sa quanto mi sia cara la figura di Persico, conferma: «S’intitola Dentro il labirinto e lo pubblica un editore d’arte, Skira» (pagine 166, euro 15). Vuoi vedere che il povero Edoardo, figlio di una famiglia della piccola borghesia napoletana, emigrato a metà dagli anni Venti prima a Torino e poi a Milano, per cercare lustro nelle arti e nella cultura, rischia "tanticchia" (per usare la lingua di Montalbano) di finire materia per un "giallo" alla Camilleri? L’amico ridacchia e rilancia: «Ma tu che idea ti sei fatto della sua morte in tanti anni che ti occupi di Persico?».
E qui la conversazione diventa evasiva, da parte mia sia ben chiaro; sono io che non ho un’idea precisa dopo aver letto e riletto le testimonianze dell’epoca e il dibattito successivo, che ha avuto intermittenti fiammate polemiche, dove ogni tanto ritornava a farsi vivo il "giallo" della morte. O meglio, un’idea ce l’ho, ma non sulla morte di Persico, bensì sulle mille ambiguità del suo caso: c’era qualcuno, e forse c’è ancora, che sa come stanno le cose, e magari ha in mano documenti che potrebbero aiutare a diradare le ombre. Ma nessuno, oggi come allora, svuota il sacco: omertà, la chiama Camilleri a proposito dei tanti amici dell’epoca che nelle loro dichiarazioni crearono quel velo di sospetto che non ha mai trovato spiegazione. E questa omertà ha prodotto ipotesi come quella che l’antifascista Persico poteva essere stato un informatore dell’Ovra, e che questo ne abbia in qualche modo causato la morte. La locuzione "in qualche modo" sta a significare che si possono dare infinite spiegazioni plausibili: potrebbe trattarsi di morte provocata da sicari del fascismo che intendevano spingerlo a farsi collaboratore del regime; o di morte "volontaria" decidendo di non curarsi dai danni fisici subiti nei maltrattamenti cui forse venne sottoposto durante interrogatori della polizia politica ancora qualche mese prima della scomparsa; oppure, anche, di assassinio maturato dentro le fila dell’antifascismo da parte di qualcuno che lo sospettava di doppio gioco: Persico, infatti, era amico di artisti e intellettuali oppositori del regime, ma aveva frequentato anche personaggi di fede fascista, per quanto rivoluzionaria, come il circolo intellettuale fiorentino di Garrone, Ricci e Rosai (e l’ultimo suo intervento di grande respiro intellettuale, per cui viene oggi continuamente ricordato, è la conferenza Profezia dell’architettura che tenne il 21 gennaio 1935 presso l’Istituto Fascista di Cultura di Torino, cosa che in sé non è prova e nemmeno indizio delle simpatie fasciste di Persico, ma dice solo che la sua posizione etica era di tipo per così dire "trascendente"). Resta sempre l’ipotesi che la versione ufficiale, morte per infarto, abbia un briciolo di verità (fu sempre un poco cagionevole di salute e subì vari interventi chirurgici).
Persico venne trovato morto l’11 gennaio 1936, riverso nel bagno, completamente nudo, con la testa incastrata tra il muro e il piede del lavabo. Aveva il fegato spappolato e forse anche una frattura al collo. Il fatto è, come nota Camilleri, che il Procuratore generale nel certificato di morte seguito all’autopsia fece scrivere "causa di morte indeterminata". E questa ambiguità che ricorre nelle testimonianze è uno degli elementi che fonderanno la leggenda di Persico. Quella intellettuale si può misurare nelle parole di Lionello Venturi - antifascista doc - in occasione della sua morte: «Sentivamo che la sua cultura era grandissima, anche se aveva assai poco di comune con la nostra. E con meraviglia ci accorgemmo che d’un volo, senza scomporsi, giungeva là dove noi si arrivava lenti e affaticati... Credevamo che s’avvolgesse nel mistero, e mi accorsi più tardi - non troppo tardi per la nostra amicizia - che quel presunto mistero non era se non la sua possibilità di creare dal nulla».Camilleri entra nel "labirinto" Persico, scavando nelle incongruenze nei resoconti e negli scarni documenti rimasti di quella tragica notte. Però, arrivato alla pagina 108 del libro dice basta, ammette di non trovare l’uscita dal labirinto e decide di costruirne una lui tagliando per la verticale (sotterranea, come ogni buona talpa sa fare), costruendo un "romanzo" dove i dati ufficali diventano il paratesto di un canovaccio nel quale si svolgono azioni di spionaggio negli anni successivi alla Grande guerra, con un giovane e brillante intellettuale napoletano, vicino alle idee del cattolicesimo intransigente di Hello e frequentatore dei gruppi liberaldemocratici di Giovanni Amendola, antifascista precoce, nutrito di filosofia crociana e ammiratore del quasi coetaneo Gobetti, che smania per mettersi in luce. Sarebbe qui il nodo decisivo di una storia che lo vede all’inizio degli anni Venti girare l’Europa e arrivare fino a Mosca al soldo dell’intelligence italiana. Poi, improvvisamente, dopo l’assassinio di Matteotti, rientra in italia e sbatte la porta in faccia ai Servizi: «Mi ero messo al servizio di un assassino». Con la morte di Gobetti da poco emigrato in Francia, Persico perde anche l’ultima àncora, decide allora di lasciare Napoli e si reca proprio nella città dell’intellettuale di Rivoluzione liberale: Torino. Passa qualche anno e il regime cerca di farsi degli informatori nel mondo antifascista, ecco che il passato ritorna a farsi vivo. Lo arrestano nell’estate del 1935 e resta in carcere (forse) per alcuni mesi. Per Camilleri, è il periodo in cui la polizia politica cerca di convincerlo a collaborare. Lo maltrattano, forse gli procurano lesioni interne. Persico, pur di non tradire gli amici, decide di non curarsi e di lasciarsi morire. La spia di questo sarebbe una frase riportata da Birolli, riferita al Salone della Vittoria della Triennale che Persico aveva progettato con Nizzoli e Palanti: «Lo inaugurerete voi amici, con un fiocco nero». In effetti morì circa un mese prima dell’inaugurazione. Resta da fare qualche osservazione a margine. Camilleri elabora il "giallo" fornendo alcune informazioni su Persico, la sua vita, le sue idee. Sono accenni abbastanza sintetici, che mirano soprattutto a liberare la figura del critico italiano dalla vulgata leggendaria, ma non analizzano a fondo la vicenda culturale di Persico; una delle questioni che Camilleri non affronta è quella della sua posizione "impolitica", che spiega perché frequentasse antifascisti e fascisti conclamati. Un saggio tra i più importanti e meno citati nella bibliografia di Persico è quello scritto da Giuseppe Goisis per il convegno veneziano del 1976 su Maritain e la società contemporanea, dove tirava in ballo la categoria dei "non conformisti" europei e italiani accostando Persico a Noventa. Qualche anno prima era uscito un saggio di J.L. Loubert del Bayle su I non conformisti degli anni Trenta, che spiegava come uomini di convinzioni etiche e politiche molto diverse convergessero trasversalmente su alcuni obiettivi polemici: capitalismo e bolscevismo erano considerati mali equivalenti, da combattere nella logica rivoluzionaria e antiborghese. Per dire quanto poco colga certe sfumature, Camilleri cita l’espressione di Berto Ricci «Chicago, la città dei maiali», correggendo il presunto refuso che in Ricci invece aveva un valore polemico: "Cicago", dove la storpiatura intendeva sfregiare la capitale americana della macellazione industriale delle carni di maiale, la prima ad aver applicato il taylorismo del lavoro, e per questo caso emblematico di quel tramonto della "civiltà del lavoro" cara al discorso antiborghese di Ricci.
«Ma che tu che idea ti sei fatto della morte di Persico?». Come ho detto, nessuna di cui sia del tutto convinto. Esiste però un mistero forse più decisivo. Chi si è occupato di Persico e ha voluto studiarlo un po’ più a fondo sa che esisteva presso la Fondazione Feltrinelli un deposito dei documenti a lui riferiti che un professore e storico d’architettura, che oggi vive a Ginevra, Riccardo Mariani, si fece prestare per motivi di studio. Di quei faldoni oggi non c’è più traccia, e alcuni pensano che Mariani se lo sia tenuto e l’abbia portato con sé in Svizzera. Se così fosse, perché Mariani non lo restituisce e non lo mette a disposizione di tutti? Se non è così, può dirci che cosa fece dopo averlo usato per i propri studi? Lo restituì? E quando? E a chi? Infine, Mariani ha conosciuto anche Pietro Maria Bardi, grande "mediatore" tra gli architetti razionalisti e il regime perché convinto che questa architettura dovesse diventare "arte di Stato". Bardi per alcuni anni fu amico e "protettore" di Persico dalle attenzioni troppo assillanti della polizia politica; quando morì, alcuni anni fa, a San Paolo del Brasile dove viveva dal dopoguerra, lasciò un archivio che Mariani conosce e di cui forse è il custode premuroso; se anche questo corrisponde al vero, in quell’archivio potrebbero esserci documenti molto importanti per dissipare le ombre che gravano ancora sulla vicenda Persico (e su altro). E se certi documenti riemergessero dall’oscurità, anche Andrea Camilleri potrebbe verificare quanto il suo fiuto da detective abbia saputo "inventare" la verità, ovvero potrebbero dirci, quei documenti, fino a che punto la leggenda Persico abbia coperto una verità inconfessabile (mentre l’apporto di questo intellettuale alla cultura della prima metà del Novecento, tutto sommato, resta ancora poco analizzato al di là del suo contributo essenziale alla critica d’arte e d’architettura). D’altra parte, le strade che da Palermo portano a Ginevra non sono poi infinite...
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