mercoledì 15 aprile 2020
Alle soglie dei 100 anni legge l’emergenza ecologica e la pandemia alla luce dell’estemporaneità della storia, invitando i giovani a ricostruire sulle fondamenta di un nuovo umanesimo
Edgar Morin

Edgar Morin - .

COMMENTA E CONDIVIDI

Attento, sorridente, disponibile, Edgar Morin ti guarda negli occhi quando parla e mentre ti ascolta. Il sociologo e filosofo francese, nato nel 1921, ha attraversato un secolo di storia e raccontato la sua in memorie di recente pubblicazione. Alla scrivania del suo studio nell’Istituto di botanica di Montpellier, risponde a queste domande un giorno di febbraio, all’inizio della pandemia da coronavirus. Così legge il presente il padre del “pensiero complesso”.

Pensa che il coronavirus possa segnare per l’umanità una presa di coscienza dell’interdipendenza e comunità di destini di tutti gli esseri umani?

Stiamo vivendo una tripla crisi: quella biologica di una pandemia che minaccia indistintamente le nostre vite, quella economica nata dalle misure restrittive e quella di civiltà, con il brusco passaggio da una civiltà della mobilità all’obbligo dell’immobilità. Una policrisi che dovrebbe provocare una crisi del pensiero politico e del pensiero in sé. Forse una crisi esistenziale salutare. Abbiamo bisogno di un umanesimo rigenerato, che attinga alle sorgenti dell’etica: la solidarietà e la responsabilità, presenti in ogni società umana. Essenzialmente un umanesimo planetario.

Lei ha scritto che la storia, in particolare quella umana, è imprevedibile e che il futuro dell’umanità sarà altrettanto inaspettato. Si può, tuttavia, parlare di una qualche lezione della storia?

La prima lezione della storia è che non impariamo lezioni dalla storia, che siamo ciechi a ciò che ci ha insegnato. Per esempio che essa comporta un certo numero di determinismi, come lo sviluppo delle forze produttive o i conflitti di classe indicati da Marx, ma anche una dimensione shakespeariana, di noise and fury. Ai nostri antenati cacciatori e raccoglitori non è saltato in mente che sarebbero diventati contadini, così come gli imperi dell’antichità non pensavano minimamente al proprio crollo, né l’Egitto, né i Sumeri, né Roma. C’è una gran parte d’ignoto e d’inaspettato: è a mio avviso una delle lezioni. Il movimento hitleriano negli anni 20 sembrava condannato alla sterilità. Ma la congiunzione tra la crisi del 29, una Germania umiliata dal trattato di Versailles, la divisione tra socialisti e comunisti, i poteri finanziari che pensavano di manipolare Hitler senza sapere che lui avrebbe manipolato loro, ha fatto accadere l’impensabile: che il Paese più colto d’Europa affondasse nella barbarie. La storia, dunque, ci insegna a essere vigili e a pensare che i periodi che appaiono progressisti possono essere seguiti da regressione e barbarie, e che nemmeno questa è eterna. Prima della guerra, la dominazione nazista in Europa sembrava generale e che cosa ha fatto cambiare le cose? Il Duce. Perché ha voluto attaccare la Grecia ma è stato fermato dal piccolo esercito greco, allora ha chiamato Hitler in aiuto, che ha dovuto rimandare di un mese l’at- tacco all’Urss previsto a maggio del ’41, perché si è scontrato con la resistenza serba prima di arrivare a piantare la bandiera con la svastica sull’Acropoli. Così, arrivato alle porte di Mosca, l’esercito tedesco è stato congelato da un inverno precoce. Ma, se avesse attaccato a maggio, avrebbe preso Mosca e il destino sarebbe cambiato.

Significa che la storia è governata dal caso?

Il caso interviene spesso, ma è la complessità dei fattori che operano nella storia a modificarla di più, avvenimenti che fermentano e lavorano sulla realtà. Gorbaciov, per esempio, chi se lo aspettava? O il precedente re di Spagna, che era stato nutrito dal franchismo… Scaturiscono conversioni psicologiche, se così si può dire, uno spirito sotterraneo che rovescia le parti: la storia è anche questo.

Vede una nuova devianza nel presente e ritiene preoccupante la recrudescenza dei nazionalismi?

Siamo in un’epoca regressiva. La regressione si manifesta con la crisi delle democrazie che in molti luoghi, Europa compresa, lascia il posto a regimi semidittatoriali, in Turchia, in Ungheria, in Russia, un po’ anche in Polonia. Una tendenza quasi universale, cui si somma il dominio di gigantesche forze economiche, che nelle condizioni di neoliberismo attuali pesano sui popoli, che si sollevano ma falliscono. Queste rivolte si sgonfiano o vengono schiacciate perché non c’è una forza che le guidi, una voce capace di dare un senso al futuro. Stanno prevalendo fattori negativi. Ogni tanto, interviene un fattore gradevole e inatteso, come l’elezione di Papa Francesco.

Le piace Papa Francesco?

Sì certo, pur essendo io agnostico.

Lei sostiene che l’incapacità di gestire la complessità ci porta verso l’autodistruzione. Abbiamo possibilità di salvarci?

Ci sono forze autodistruttive in gioco negli individui come nelle collettività, inconsapevoli di essere suicidi. Fin dove arriveranno questi danni e quando avverrà una reazione, non si sa. Da 50 anni sono tra coloro che lanciano l’allerta. Ma i progressi della coscienza sono lenti. È tardi. Non lo so. Penso possa esserci devastazione, ma non vedo la distruzione della specie umana. La storia insegna anche come a un certo punto tutto sembri crollare, la romanità per esempio; poi da un processo multisecolare scaturisce qualcosa di nuovo e rivoluzionario. Siamo in un mondo incerto e possiamo immaginare un avvenire in cui intervengono forze catastrofiche, ma la probabilità non è mai certezza.

In un libro con Mauro Ceruti, scrive che l’idea dell’Unione europea è figlia dell’improbabile perché è immaginata da uomini al confino durante la guerra. L’improbabile come motore di ottimismo?

Io ci credo. Ma non so quale improbabile possa comparire oggi. Nella storia umana, comunque, i due inconciliabili ma inseparabili nemici che sono Eros e Thanatos continueranno ad affrontarsi, e Thanatos non riuscirà a distruggere Eros Eros a eliminare Thanatos. Ognuno a turno prenderà il sopravvento. Oggi i più forti sono Polemos e Thanatos, ma non c’è eternità nella storia.

Alexander Langer diceva che la rivoluzione ecologica potrà affermarsi nella misura in cui sarà desiderabile; è d’accordo?

Ci sono gli ecologisti ma la scienza ecologica non è insegnata da nessuna parte. È una scienza polidisciplinare e in quanto tale non accolta nelle nostre università. La seconda lacuna è che, nonostante si sappia da Darwin in poi che siamo frutto di un’evoluzione biologica, tutta la nostra cultura continua a separare il biologico dall’umano. Abbiamo creato una frattura epistemologica. Le catastrofi, come Chernobyl, scuotono, poi vengono dimenticate, e così i nuovi uragani. Altre culture hanno un senso dell’inglobamento dell’umano nella natura ben superiore al nostro.

Greta Thunberg?

Ha svegliato qualcosa nella gioventù di molti Paesi e questo è davvero positivo.

L’economia procede in modo del tutto incontrollato. Come si potrebbe orientarla e quale controllo sarebbe auspicabile?

L’unico controllo auspicabile sarebbe quello esercitato da organismi economici mondiali, che esistono ma sono al servizio della corrente dominante. Servirebbe una coscienza planetaria della comunità dei destini umani. Oggi, al contrario, l’angoscia fa che ci si richiuda sull’identità nazionale, etnica, sul nazionalismo. Invece di un’apertura della coscienza, vitale, c’è una chiusura, mortale. Questa regressione non possiamo nascondercela, meglio vederla e formare degli isolotti di resistenza. Creare oasi di libero pensiero, fraternità, solidarietà, isolotti di resistenza che difendono valori universali e umanisti, e pensare che un giorno questi possano diventare un’avanguardia. È successo tante volte nella storia, succederà di nuovo.

Crede nell’idea di progresso?

No. Ci sono progressi possibili, progressi incerti e ogni progresso che non si rigeneri degenera. Tutto può regredire.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: