lunedì 9 giugno 2014
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​La preoccupazione di un vescovo è stata espressa dai vescovi italiani nel 1971 in un documento intitolato Vivere la fede oggi, dove dicono: «Le feste si rinnovano con puntualità e solennità, secondo antiche consuetudini. I segni religiosi sono ancora presenti e dominanti nel panorama di un popolo che da circa due millenni si gloria del nome cristiano. Ma – ecco l’interrogativo – si può sempre dire che tutto questo nasca da un profondo “senso religioso”, da un’autentica “fede” cristiana?». Qualcuno considera questa lettera incompleta e approssimativa, e sarà; comunque l’interrogativo se lo pongono i vescovi proprio di fronte alla loro responsabilità pastorale. Un vescovo non può certo non incontrarsi con questa realtà se non vuol governare la diocesi stando dietro le scartoffie di una scrivania, che non è certo il modo di guidare e aiutare una comunità. [...]Per ciò che riguarda l’Italia – io non so delle altre nazioni – è interessante quanto nota uno dei nostri migliori teologi, che è anche presidente dell’Associazione teologi italiani, don Sartori di Padova, per il quale in Italia l’interessamento per la religiosità popolare è partito dalle scuole laiche soprattutto di matrice marxista; non è partito in primo luogo dagli ambienti ecclesiastici, a differenza dell’America Latina dove la religiosità popolare che si esprime soprattutto – lascio stare adesso tutte le varie contaminazioni di spiritismo, di macumba, ecc. – attraverso le comunità ecclesiali di base, è gestita di fatto dalla Chiesa (laici, preti e vescovi in pieno accordo). Uno studioso che ha parlato in un convegno di Santa Giustina a Padova nota che la problematica sulla religiosità popolare è nata da poco con lo scopo di capire all’interno del fenomeno religioso certi momenti parziali, minori, complementari che non sono spiegabili con la religiosità ufficiale, ma che, più o meno, rispettosi di alcuni elementi (fondamentali o no) della religiosità ufficiale, esprimono una dimensione del sacro insito nella cultura e letto attraverso la cultura di un gruppo. Secondo uno studioso, Carlo Prandi, nell’ultimo numero di «Testimonianze», la religiosità popolare in Italia è soprattutto dovuta al disegno pedagogico a lungo periodo di cui la Chiesa cattolica si è storicamente assunta la funzione di definire e diffondere i modelli, e cita specialmente i catechismi e molti scritti devozionali. Notate subito: non parliamo facilmente di religiosità popolare in opposizione al tipo di religiosità proposto dalla gerarchia; in questo caso è piuttosto la gerarchia che, con questi mezzi, ha favorito lo sviluppo di una religiosità popolare. [...]Non mi illudo di aver fatto una presentazione della religiosità popolare che sia scientifica, che risponda a canoni rigorosamente scientifici. Ho descritto alcune cose partendo da letture ed esperienze. Adesso mi domando: qual è a questo riguardo il comportamento dei pastori, dei preti, dei vescovi? Ecco, io vedo due atteggiamenti opposti con tutta una gamma di sfumature intermedie. Atteggiamento di opposizione decisa da parte di chi concepisce queste manifestazioni come forme di paganesimo o di alienazione, e allora fa o vorrebbe fare come san Martino di Tours quando, andando in giro nella Gallia, ogni volta che trovava un santuario pagano ordinava di abbatterlo immediatamente; o come hanno fatto a Callinicum quei cristiani che hanno incendiato la sinagoga e quei monaci che hanno dato fuoco ad un tempio di Valentiniani con l’appoggio, purtroppo, di sant’Ambrogio. Era una religiosità popolare praticata da gente che essi non consideravano della Chiesa e che non erano certamente della grande Chiesa. Ne ho trovati alcuni decisi nello spogliare o quasi le chiese da una molteplicità di immagini, decisi ad abbandonare certi riti tradizionali come la benedizione delle case, dicendo che non si va nelle case a spruzzare i muri di acqua santa, ecc. Quindi un’opposizione decisa.In altri ho trovato un atteggiamento segnato da larga tolleranza, in certi casi addirittura approvazione, o per timore di rotture e di allontanamenti, o anche per condivisione di mentalità. [...]Quando stavo preparando questo schema, mi è capitato sott’occhio, anzi l’ho cercato dovendo preparare una lezione su san Gregorio Magno, una lettera di san Gregorio. Gli Angli usavano sacrificare buoi agli idoli; allora scrivono domandando a Gregorio: quando noi facciamo una festa religiosa, una dedicazione di una chiesa, per esempio, o una festa di martiri, questi nostri nuovi cristiani vorrebbero anche allora uccidere e mangiare dei buoi alla gloria di Dio, del Dio vero non degli idoli. E san Gregorio risponde: abbiate pazienza, è impossibile proibire tutto in una volta a gente così rude.Perché dovrei condannare certe forme di religiosità solo perché non mi vanno, perché non mi piacciono? Perché dovrei condannare il contadino che porta al santuario l’ex voto che ritrae la stalla, le sue vacche, il suo mondo? Cerchiamo di rispettare le persone. Il rispetto vieta al responsabile della comunità (il parroco, il prete) di far trovare la comunità di fronte a innovazioni non preparate: dieci madonne sono forse troppe in una chiesa, ma farne sparire nove stanotte, con il rischio di far preoccupare o star male la gente, non è altrettanto male? Preparare la gente è un modo per rispettarla. Un altro principio importante: cercare di scoprire in queste forme di religiosità popolare gli elementi validi. Leggo cosa dice un eminente liturgista, don Pinell, monaco di Montserrat. A Montserrat vengono da tutta la Catalogna offrendo «frutta, pane, vino, olio, verdure, fiori, animali da cortile, lavori di artigianato, lampade votive, trofei sportivi» – se siete mai stati al santuario di Oropa quante maglie della Juventus e del Torino avete visto esposte! – «stemmi o gonfaloni delle loro organizzazioni ricreative o culturali». Ma aggiunge che c’erano gruppi di giovani «venuti a piedi dalla loro città, distante da Montserrat quasi duecento chilometri, e portavano un fascio di trentotto spighe di grano, che avevano raccolto dalle trentotto zone agricole, in cui è divisa naturalmente la Catalogna». Quando dico elementi validi, mi pare che questi siano veramente validi, direi che fa eco al racconto della creazione, «al termine Dio vide che era buono». Dice don Mattai, in un articolo Religiosità popolare: «Nella pietà popolare si manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere» (vedi anche Mt 11, 25-28: «Ti ringrazio Padre Signore del Cielo e della Terra che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate agli umili»: non dimentichiamo che il Vangelo non è zona di caccia riservata per gli intellettuali, è per tutti, e chi vuol capirlo, anche se è dotto, si deve – Agostino non si stanca mai di dirlo – abbassare nell’umiltà dello spirito). E aggiunge: «Inoltre tale pietà rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso profondo degli attributi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione». [...]Bisogna dunque cercare di riconoscere questi elementi validi, ma non fermarsi lì. Consolidare, rafforzare, non tanto guardando a singole espressioni, ma “rafforzare” – dice don Sartori – «tutt’intero il mondo della cultura popolare specifica di cui si nutre la religiosità di un popolo e di una comunità». Dunque purificare, da una parte e dall’altra. Purificare chi segue certe forme di religiosità popolare che non si possono accettare, ma anche purificare l’atteggiamento di chi pretende di farla da giudice ergendosi così ad arbitro di ciò che fa il fratello senza rendersi conto abbastanza dei valori che sono in gioco.
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