venerdì 20 ottobre 2023
Un libro della storica Fredriksen indaga l’evolvere del concetto di peccato nel cristianesimo e come questo abbia portato a uno stile più centrato sul timore dell’inferno che sulla gioia del Regno
Philippe de Champaigne, “Sant’Agostino” (particolare)

Philippe de Champaigne, “Sant’Agostino” (particolare) - archivio

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Come ha ben dimostrato lo storico francese Jean Delumeau, la civiltà occidentale per oltre un millennio è stata dominata dal senso di colpa finendo per ampliare a dismisura le dimensioni del peccato rispetto a quelle del perdono. Pure le letture della Sacra Scrittura e la conseguente predicazione delle verità di fede si sono appoggiate su una visione del mondo considerato come il regno del Maligno. In realtà nei Vangeli il “mondo” si presta a una lettura ambivalente: ora appare come il regno di Satana che si contrappone a quello di Dio e che alla fine dei tempi sarà vinto, ora indica l’umanità che vive sulla terra e su questa seconda accezione non pesa più un giudizio di condanna. «Uno dei drammi - annota appunto Delumeau - della storia cristiana è dato dalla confusione dei due significati del termine “mondo” e dall’estensione di un anatema che riguardava solo il regno di Satana».

Nel volume Il peccato e la paura, tradotto in Italia dalla casa editrice il Mulino nel 2006, Delumeau evidenzia il processo progressivo attraverso il quale la Chiesa ha dato sempre più spazio a un annuncio fondato sulla paura della dannazione che non sul desiderio di ricongiungersi con Dio in cielo. Predicazioni e raffigurazioni per lunghissimo tempo si sono uniformate a questo modello. Sant’Agostino e i Padri del deserto, oltre che i monaci del Medioevo, sono indicati come i principali responsabili di questo pessimismo di fondo sulla natura umana e sulle sue possibilità di salvezza, congiunti al disprezzo per il corpo e per il mondo. Di qui anche l’accentuazione del nesso fra colpa e sventura, personale o collettiva, così che tutti gli eventi anche fisici che colpivano l’umanità, dalla peste alla carestia ad ogni tipo di cataclisma, veniva collegato al peccato dell’umanità.

Ma sempre Delumeau ricorda che per tre volte Gesù si è pronunciato contro questa logica: nel caso del cieco nato, in quello delle vittime della torre di Siloe e dei galilei massacrati da Pilato. Così, tutta una concezione della vita fondata sul dolorismo ha a lungo prevalso e anche quando si giunse a elaborare in maniera definita la dottrina del purgatorio, esso venne visto più come luogo di castigo che di purificazione.

Ora un bel volume di Paula Fredriksen, che ha insegnato Storia delle religioni all’università di Princeton e Interpretazione biblica in quella di Boston e a lungo ha studiato i primi secoli del cristianesimo, mette a fuoco questa tematica affrontando sette figure: innanzitutto Gesù e Paolo, poi Valentino, Marcione e Giustino, infine Origene e Agostino. Il libro si intitola Il peccato ed è pubblicato da Paideia (pagine 214, euro 26,00). Se la questione del peccato e della redenzione sono quelle fondamentali, in realtà l’autrice spazia dalla storia all’escatologia, dal rapporto con gli ebrei e i pagani alle diverse sottolineature della carne e dello spirito, rilevando le tante facce del cristianesimo di allora, almeno sino al primo Concilio di Nicea che stabilì la natura divina e umana di Cristo. Le prime parole di Gesù, riportate nel Vangelo di Marco, sono state: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo».

Fu l’annuncio della buona notizia: Dio si era incarnato per salvare l’umanità. Fredriksen si sofferma nella prima parte sull’attesa escatologica che animava i discepoli e le prime comunità cristiane, che attendevano il ritorno imminente di Gesù. Uno dei segnali della parusia sarebbe stato considerato la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. da parte di Tito. Un capitolo è dedicato ovviamente a Paolo e al suo concetto di peccato, ben espresso nella nota frase della Lettera ai Romani «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio», a sottolineare come la creazione intera sia prigioniera della legge del peccato e come solo la morte e la resurrezione di Cristo portino alla redenzione. Scrive la studiosa: «Il campo d’azione del peccato è per Paolo universale. Il peccato pervade il cosmo e definisce la condizione umana».

Ma la salvezza toccherà a tutti, anche agli ebrei e ai pagani? Secondo Fredriksen Paolo non ha dubbi, la redenzione sarà universale, cone si legge ancora nell’epistola ai Romani: «Dio ha infatti imprigionato tutti nella disobbedienza, così da poter mostrare misericordia verso tutti». Diverse interpretazioni subì il pensiero di Paolo nei secoli seguenti, soprattutto da parte degli gnostici Valentino e Marcione, che fecero del disprezzo del corpo uno dei fondamenti del loro pensiero. «Sia per i valentiniani sia per i marcioniti – dice l’autrice – salvezza significa redenzione dalla carne. Per i protortodossi salvezza significava invece redenzione della carne».

A loro rispose Giustino, ritenuto il primo filosofo cristiano. Ma dove la sfida si fece decisiva sul tema della redenzione universale avvenne più tardi, con Origene e poi con Agostino. Il primo (187-254) operò nel mondo greco, mentre il secondo (354430) nel mondo latino, ma entrambi condividevano lo stesso canone scritturistico e ritenevano di parlare a nome della vera Chiesa dell’ortodossia cristiana. Furono due veri geni della Chiesa antica, ma sulle cose ultime si trovarono in profondo disaccordo: la teoria sull’apocatastasi di Origene, secondo la quale tutta l’umanità sarebbe stata redenta e perfino Satana si sarebbe alfine salvato, fu infatti condannata come eretica.

In Agostino l’idea di giustizia in Dio prevalse su quella della misericordia. Il vescovo di Ippona, vissuto un secolo dopo Origene, si pose in diretta contrapposizione: «Sono consapevole che devo impegnarmi in un dibattito con quei cristiani compassionevoli che rifiutano di credere che la punizione dell’inferno sarà eterna. Sull’argomento il più compassionevole di tutti fu Origene ». Un’opinione che per Agostino contraddice le parole esplicite di Dio. La discussione teologica ha avuto come noto un epilogo nel ’900, con il libro Sperare per tutti di von Balthasar.

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