domenica 18 maggio 2025
Il vincitore dello Strega Europeo in "Il giorno dell'ape" narra i destini di una famiglia colpita dalla crisi. «Isolarsi non serve, la vita è relazione. Nella perdita attingiamo a risorse antiche»
Lo scrittore irlandese Paul Murray

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Al Salone del Libro l’autore irlandese Paul Murray ha presentato con Sandro Veronesi Il giorno dell’ape (Einaudi, pagine 664, euro 22,00), il suo quarto romanzo, vincitore del Premio Strega Europeo e definito dalla critica come «un’esperienza letteraria destinata a lasciare il segno». Al centro della storia ci sono i Barnes, una famiglia sull’orlo del disastro. Dickie, il padre, un tempo brillante imprenditore, passa le giornate a costruire un bunker invece di affrontare la crisi della sua concessionaria. Imelda, la moglie, cerca di salvare le apparenze vendendo di nascosto i suoi gioielli su internet. Cass, la figlia adolescente, ex studentessa modello, sembra voler sabotare il proprio futuro, mentre il dodicenne PJ sta progettando di scappare di casa. Ma cosa è andato storto? Murray racconta la storia di una famiglia tra identità e illusioni che si sgretolano, lasciandosi dietro le macerie finanziarie della crisi, ma anche tanti segreti, profonde ferite emotive ed esplorazioni della fragilità da diversi punti di vista. Lo fa attraverso una struttura narrativa polifonica e uno sguardo attento alle dinamiche di ogni membro della famiglia, sviluppando punti di vista diversi da cui far partire una narrazione che strizza l’occhio a temi come la perdita, il valore dell’apparenza, l’identità individuale e il collasso collettivo, la tensione tra modernità e tradizione, e molto altro, senza rinunciare a un tono talvolta ironico. Abbiamo intervistato Murray a partire dal dietro le quinte del suo libro, riflettendo sulla leggerezza in scrittura – tema del Salone di quest’anno – nonché sul prolifico periodo che sta vivendo negli ultimi anni la letteratura irlandese.

Partiamo dal titolo, che si riferisce a un dettaglio minimo ma importante del libro. Come lo ha scelto?

«È stata l’ultima cosa che mi è venuta in mente, dopo circa quattro anni di lavoro. Fino ad allora, lo chiamavo semplicemente “Murray, quarto libro”. I titoli sono difficili e importanti. Lavoravo in una libreria e sapevo quanto le persone facessero fatica a ricordarli: a volte mi chiedevano “il libro blu”, o “quello giallo”. Cercavamo qualcosa di incisivo e abbiamo valutato idee come “acque sotterranee”, poi è arrivata “l’ape”, ed è stato perfetto. Nel libro l’ape è inizialmente legata alla madre, Imelda, e alla sua vanità. Ma più avanti si scopre che dietro quella storia ce n’è un’altra, più oscura. Il libro parla proprio delle storie che raccontiamo agli altri e a noi stessi per evitare la verità, che spesso è troppo difficile da affrontare».

Come è stato il lavoro sui diversi punti di vista che caratterizzano il romanzo?

«Ogni volta che iniziavo una nuova sezione, la voce del personaggio emergeva in modo naturale, anche se non subito. Ogni voce era diversa in modi significativi. È stato bello lavorare sulle diverse voci, anche tramite scelte stilistiche come la punteggiatura o la sua assenza. Questi elementi aiutano a mostrare l’unicità dei personaggi. È stato emozionante scoprire una lingua specifica per ciascuno. Sono una famiglia, ma parlano lingue diverse e non riescono a capirsi. Questo è stato un motore narrativo molto potente».

In epigrafe cita il poeta inglese John Donne sul tema della paura, ma ho letto che aveva pensato anche di usare una frase di John Berger sul passato che non scompare.

«Lavoravo in un piccolo ufficio in città, senza wi-fi e con pochi libri. Uno di questi era Ritratti di John Berger, che non avevo mai letto prima. Quando ero bloccato o stanco, ne leggevo un pezzo. Berger è un pensatore brillante, sempre originale. Mi ha ispirato l’idea che nella scrittura si può deviare, sorprendere, creare qualcosa di diverso. Nell’epigrafe che avevo pensato si parla del passato che non è andato via, ma si accumula intorno a noi. È un’idea che mi affascina: quando affrontiamo grandi perdite, non ci aiutano Netflix o Amazon, ma qualcosa di più antico, come una storia raccontata da qualcuno».

In che modo la crisi economica in Irlanda ha influenzato la trama del libro e il comportamento dei personaggi?

«La crisi economica in Irlanda si è protratta dal 2008 al 2015 circa, e il settore automobilistico – che è al centro del libro – è stato tra i più colpiti. Prima c’era stato un boom economico, e durante quel periodo il settore era esploso: tutti compravano auto nuove. Quando è arrivata la crisi, tutto si è capovolto. La famiglia protagonista del libro è proprio all’apice di quella crisi: avevano molti soldi e definivano sé stessi attraverso la loro ricchezza. Svanendo questa si rendono conto che le persone non li vedono più come prima. Anche i rapporti all’interno della famiglia diventano problematici. È come se avessero costruito un’illusione, e fossero costretti ad affrontarne la scomparsa. È un ritratto fedele di come ci si sentiva in Irlanda in quel periodo».

Dickie nel libro costruisce un bunker invece di affrontare le difficoltà della sua concessionaria. Il bunker rappresenta una fuga dalla realtà o simboleggia qualcosa di più profondo?

«Il bunker può significare cose diverse per ciascun personaggio. Per alcuni è un gioco, per altri una fantasia. Per Dickie, però, diventa una vera fuga: inizia come una fantasia, ma poi diventa realtà. È un uomo di mezza età che si rifugia in un’illusione, pensando di potersi isolare dal mondo. Ma questo è impossibile: il mondo è fatto di relazioni. Dickie è terrorizzato dal rifiuto e pensa che l’unico modo per proteggere sé stesso e la famiglia sia nascondersi. È una tendenza simile a quella dei survivalisti americani: l’idea che si possa essere una “nazione di uno”».

Il tema del Salone di quest’anno è quello delle “parole tra noi leggere”. Cosa significa per lei leggerezza in scrittura?

«Durante un master in scrittura creativa, la mia tutor Ali Smith ci regalò le Lezioni americane. Sei promemoria per il prossimo millennio, di Italo Calvino. Uno dei saggi parlava di leggerezza. Diceva che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto. Per me leggerezza significa creare storie che, anche se affrontano temi profondi, riescono ad attirare il lettore, a farlo sentire libero. Trovo difficile leggere libri che suonano solo una nota, sempre la stessa. Mi piacciono quelli con toni misti: l’umorismo per esempio rende il dolore più potente, e viceversa. È una forma di equilibrio, un modo per sopravvivere. Nel mio primo libro, An Evening of Long Goodbyes, c’era già per esempio l’idea di eleganza che nasconde lo sforzo, di sopravvivenza attraverso la narrazione».

Quanto sono importanti nel suo libro il rapporto con il passato, con i segreti, con la spiritualità?

«Credo che durante il boom economico l’Irlanda abbia cercato di allontanarsi da tutte queste cose: passato, folclore, fiabe, spiritualità. Volevamo reinventarci come parte della globalizzazione. Ma c’è stato un costo: abbiamo perso il contatto con qualcosa di più profondo. Nel libro questi elementi sono nascosti, ma riemergono in alcuni personaggi. Imelda ha una zia che racconta storie e vede cose che gli altri non vedono. È un modo per sopravvivere. Dickie invece ha una visione moderna e pragmatica, ma fallisce perché il denaro finisce. Altri personaggi sono più legati al passato, e forse questo li aiuta. Nella vita, quando le nostre strategie falliscono – dopo una perdita, una morte – ci servono strumenti più antichi. Storie, radici. Il libro cerca di raccontare questo».

La letteratura irlandese è in un momento prolifico e di successo. Ha qualche autore di riferimento?

«Sì, ci sono tanti autori irlandesi validi. Scrivere è difficile e vivere di scrittura lo è ancora di più, ma negli ultimi anni è stato un buon periodo. Ci sono autori della mia generazione e più giovani che ammiro molto, come Mark O’Connell, Kevin Power, Nicole Flattery. Ce ne sono tanti. Se un autore riesce, questo può ispirare gli altri: “Se lui ce l’ha fatta – si pensa a volte – forse posso farcela anch’io”. È qualcosa che dà speranza».

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