venerdì 1 luglio 2022
Il giornalista paulista-torinese firma il libro “Lettera a Bearzot”, ritratto umano, ancor prima che sportivo del ct campione del mondo del 1982: un'impresa lunga quarant'anni
Enzo Bearzot (1927-2010) il ct campione del mondo nel 1982

Enzo Bearzot (1927-2010) il ct campione del mondo nel 1982

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Sembra un’estate fa, quando con l’allegra brigata del “Premio Osvaldo Soriano”, a Portopalo – comune più a Sud di Tunisi – (Coccia, Taccone, Argentina, Sanguedolce e il sottoscritto) rimasti in panne con l’auto davanti alla riserva di Vendicari ascoltammo dalla viva voce di un accaldato Darwin Pastorin il racconto del suo “Vecio”. Se Gigi Garanzini è il biografo ufficiale di Enzo Bearzot, Pastorin ne è il ritrattista principe, e leggere la sua Lettera a Bearzot (Aliberti. Pagine 104. Euro 10,90. Prefazione di Alessandro Di Nuzzo) mi ha emozionato, anzi commosso. Ma soprattutto mi ha fatto ritrovare quelle affinità elettive che con Darwin talvolta vanno a intermittenza: forse per via della sua “doppia anima” piemontese-paulista o magari anche per la mia irrequieta irregolarità di voce narrante da queste colonne. La sua sua terza prova “epistolare”, dopo Lettera a mio figlio sul calcio (Mondadori) e Lettera a un giovane calciatore (Chiarelettere), è un colpo al cuore della grande Curva dei nostalgici (per fortuna ancora affollata). Non sono semplicemente cento pagine di storia del calcio, ma una piccola autobiografia sentimentale che sfoglierebbe anche la signorina Felicita di Guido Gozzano.

Tornando a quel giorno torrido siciliano, che andando nel dettaglio – qui non si può – avrebbe meritato la regia di Dino Risi, nell’attesa del soccorso meccanico e nell’angoscia di un volo per Torino che stava per perdere, Darwin ritrovò la calma e il gessetto sorridente solo ripensando al primo idolo di gioventù, Pietro Anastasi, ma soprattutto al caro Bearzot e al Mundial dell’82. Una rovesciata romantica indietro fino ai suoi 27 anni di allora, quando il direttore di “Tuttosport”, Pier Cesare Baretti (al quale dedica il libro) lo convoca, assieme al fraterno Marco Bernardini, Gino Bacci e la punta di diamante Vladimiro Caminiti – per far parte della spedizione della campagna di Spagna. La sua missione di ragazzo di bottega, nato a San Paolo (nel 1955) da famiglia di emigranti veneti di rientro a Torino dal Brasile, fu seguire la Seleçao di Zico e Falcao e non gli azzurri di Bearzot.

Eppure il ct l’aveva già conosciuto, stabilendo un rapporto speciale e filiale, cinque anni prima, quando aveva portato a termine una vera “mission impossible”, da autentico talento giornalistico. La sua carriera infatti svolta grazie a un incontro epico con il ct azzurro su commissione del “Guerin Sportivo” diretto da mastro Italo Cucci (l’altra dedica del libro è per lui) che lo aveva ingaggiato, a sua insaputa dietro segnalazione di un amico Premio Strega. «Anni dopo leggendo l’autobiografia di Cucci, Un nemico al giorno (Limina), ho scoperto che a raccomandarmi era stato Giovanni Arpino che scrisse: “A Torino c’è un ragazzo talmente bravo che qui non lavorerà mai”», confidò a Vendicari Pastorin. Un assist quello di Arpino che il talent scout Cucci non si fece sfuggire.

Mise subito alla prova il “giovane Holden” torinese: prima con un’intervista ai tre juventini «antistranieri » (Marchetti, Tardelli e Cabrini). E poi spedendolo sul “fronte nemico”: nel ritiro azzurro, dal generale Bearzot. Siamo nel 1977 e quello era il tempo in cui Cucci e il ct azzurro erano come Ettore e Achille. Poi dopo il Mundial sarebbero diventati fratelli d’Italia, ma le premesse di quell’incontro, cinque anni prima del Mundial, erano proibitive per il giovane Pastorin. «Era più facile arrivare a Paolo VI», scrive nel libro. Ma Oscar Wilde insegna ne L’importanza di chiamarsi Ernesto che spesso la fortuna è nel nome. Così alla telefonata umilmente timida di Pastorin, il ct rispose spiazzandolo: «Io per Darwin e Freud ci sono sempre!». A distanza di quarant’anni Pastorin sorride ancora al ricordo di quella battuta fulminante, in cui sta tutto lo spessore umano e culturale di Bearzot, il quale però lo avvertì: prima di concedere l’intervista al “nemico” «voglio vederti in faccia».

Il volto del giovane Pastorin, un putto sotto quella cascata di riccioli che solo Cocciante poteva vantare, non poteva che ammansire il già mite cuore furlano di Joannis che lo accolse nello scenario sontuoso di Villa Sassi fumando la sua inseparabile pipa, quasi fosse il talamo della pace. Delle cento pagine emotivamente cariche di quella passione da trasferire alle future generazioni ancora interessante a questo mestiere del giornalista sportivo (anzi del «bracconiere di storie» come voleva Arpino, dedica dovuta anche a lui) le dieci dell’intervista al “Vecio” (epiteto arpiniano, coniato nel suo romanzo Azzurro tenebra) rappresentano una summa della migliore narrativa sportiva. Se a vent’anni, nel 1951, Goffredo Parise scrisse il suo romanzo capolavoro Il ragazzo morto e le comete, a 22 Pastorin, con somma gioia del direttore Cucci, pubblica sul “Guerin Sportivo” un’intervista memorabile. E lo fa sfiorando appena l’argomento calcio.

Cose che allora potevano concedersi solo i grandi aedi calcistici della carta stampata: a Torino appunto Vladimiro Caminiti, a Milano lo “scriba massimo” Gianni Brera, a Roma il napoletano Antonio Ghirelli che al Mundial dell’82 ci sarebbe andato in veste di portavoce del Presidente della Repubblica e primo tifoso degli azzurri, Sandro Pertini. La cultura del “giovane Holden torinese”, forgiatasi a colpi di letteratura sudamericana (l’amato brasilero Jorge Amado, poi sarebbe venuto Osvaldo Soriano), italica (con la triade: Gozzano, Pavese, Arpino) e spruzzate di beat generation (Kerouac) gli consentiva di presentare al lettore calciofilo del “Guerino” anni ’70 il selezionatore della Nazionale in questi termini: «La sua volontà di viver sotto il segno della morale e della giustizia ha le radici nel gusto per le cose antiche, nei modelli classici. Per questo l’epoca ideale di Bearzot è il V secolo di Atene».

L’amore per i classici, coltivato dai Salesiani di Gorizia, specie per Orazio, il culto per il De bello gallico di Giulio Cesare «il più bel libro di storia: di una sintesi eccezionale sembra un romanzo», Bearzot l’ha trasmesso alla figlia Cinzia, che si stava laureando in Lettere antiche. Mentre la passione per la poesia e per gli scrittori americani (Hemingway, Fitzgerald e Steinbeck) è arrivata al figlio Glauco. «In vent’anni di calcio, ho avuto la costanza di leggere molto, di perfezionare la mia cultura», confessava il “Vecio” al giovane Darwin, al quale non rivelò inutili schemi e tattiche da stratega di campo, bensì il suo progetto educativo per la Nazionale: «Vorrei creare uno spirito di gruppo, attraverso la vita insieme. Io non mi pongo davanti ai giocatori come un capo autoritario, ma da fratello maggiore. Sono sempre pronto al dialogo e alla comprensione. Ma sono anche inflessibile verso coloro che vogliono ledere gli interessi comuni. La Nazionale è una piccola famiglia con le sue leggi. Come uomo vorrei conservare la mia dirittura morale».

Pastorin quel giorno scavò tra le pieghe dell’anima candida di Bearzot, il quale aveva svelato l’amore fraterno per i suoi giocatori, per molti dei quali nel tempo sarebbe assurto a secondo padre. Ruolo, quello paterno, che ha ricoperto soprattutto nei riguardi dell’eroe del Mundial dell’82, Paolo Rossi. Un “terzo figlio” Pablito che lo ha raggiunto da poco nel mondo dei più. Bearzot a Paolo l’ha perdonato – credendo ciecamente nella sua innocenza, quando venne condannato per lo scandalo del Calcioscommesse – l’ha aspettato come il “figliol prodigo” al ritorno in Casa Italia, schierandolo sempre – anche quando dopo 4 partite al Mundial non vedeva la porta – alla faccia di quella perfida stampa che lo dava per finito, assieme al suo “Vecio” protettore. Quella fiducia a Bearzot derivava dalla sua fede incrollabile di uomo che temeva la morte, ma solo perché lo avrebbe staccato dagli affetti più cari. «Io sono molto religioso. Penso che ci sia un premio ai giusti, ai buoni... Ho sempre considerato gli altri meglio di me: rispettare il prossimo è fondamentale nella vita».

Quel rispetto Bearzot lo ha insegnato a un’intera generazione di uomini – i ragazzi dell’82 – e loro sono rimasti campioni del mondo, a vita, proprio per la capacità di saper coltivare il rispetto per la cultura (specie del lavoro), la riconoscenza verso il prossimo (i tifosi, leggasi la gente comune) e la stessa legge morale del loro amato Enzo. Tempi supplementari: la memoria, specie quella di cuoio, sopravvive grazie a libri come questi. E Pastorin con Lettera a Bearzot è tornato per sempre il giovane Darwin, (l’amico ideale di Paolo Rossi), all’età dell’amato e unico figlio, Santiago, facendo pienamente sua la lezione di Cesare Pavese: «Non vediamo mai le cose una prima volta, ma con la vista seconda che è data dal ricordo».

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