venerdì 17 aprile 2015
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«Al Trullo il sole come dieci anni fa. “Fermete, a Pà. dà du carci co’ nnoi!”». Era questo il richiamo dei ragazzi di vita, quando invitavano Pier Paolo Pasolini a unirsi a loro in quelle partite improvvisate sui campi polverosi delle borgate romane.Era il calcio che amava di più, quello liberamente ispirato: al “doppio passo” del suo idolo di gioventù, il campione del mondo (nel 1938) Amedeo Biavati, e al dribbling, essenza dell’ancestrale «calcio di poesia», praticato dai brasiliani. Nel gioco del pallone, Pasolini fin da bambino trovò un linguaggio, una forma espressiva assolutamente complementare alla letteratura. Tant’è che per lui i calciatori sono essenzialmente «22 podemi» (proprio come i fonemi) in campo, e le loro combinazioni formano le «parole calcistiche».Questa la teoretica dell’unico vero “poeta del gol” che amava andare allo stadio, ma prima di tutto giocare. «Mille. Duemila? Cinquemila? Quante partite avrà giocato Pasolini?», si chiede Valerio Piccioni in Quando giocava Pasolini. Calci, corse e parole di un poeta (Limina). Le prime partitelle oratoriali le disputò a Bologna, poi come l’amore diverso e la “madre lingua” dei suoi primi componimenti, anche l’agonismo lo scoprì in Friuli. È nei dilettanti della Gil Casarsa che, l’estate del 1941, visse il suo momento di gloria. Il laureando in Lettere (l’allievo di Roberto Longhi) di stanza a Bologna, tornava a “casa” nei fine settimana per diventare il pelide Stukas dei bianconeri. «Domenica; prima partita contro l’Azzano Veneto», scrive Pasolini con un entusiasmo adolescenziale all’amico e poeta reggiano Luciano Serra, aggiornandolo qualche giorno dopo: «Ho giocato con discreta abilità, ala sinistra. Perso 4-1. Domani, domenica, partita con Camino». Quella seconda partita la Gil Casarsa la vinse 4-1 e Pasolini si segnalava come ottima spalla del bomber Manlito Bertolin, il quale coronerà il sogno giovanile del suo compagno di squadra Pier Paolo: diventare un giocatore professionista. Bertolin infatti militerà in C e B (Mestrina, Venezia e Messina). Quella del ’41 rimarrà l’unica vera stagione agonistica di Pasolini, poi la guerra interromperà la poesia degli allenamenti nello spiazzo davanti alla chiesa di Casarsa e le domeniche in cui lo spogliatoio era una stanza dell’albergo Leon d’Oro, dove alla sera i ragazzi della Gil andavano a festeggiare, anche se avevano perso. Pasolini in campo, pareva placare la sua rabbia civile, riuscendo a trovare nei febbrili 90 minuti una lieve serenità. «Dopo le partite, si ammusoniva di nuovo. Era come se all’improvviso cadesse un velo su tutto...», ricorda l’amico e attore Franco Citti. E forse anche nel tentativo di prolungare quello stato di benessere spirituale, ancor prima che fisico («una partita di calcio per me è come un mese di vacanza», amava ripetere) che cinquant’anni fa ideò la Nazionale dello spettacolo. Un’autentica selezione azzurra, composta da attori, cantanti e artisti di vario genere (da Gianni Morandi a Enrico Montesano) che fece il suo debutto nell’anno mondiale 1966. Tra i primi convocati da “capitan” Pasolini, ovviamente i suoi attori e compagni di strada, come il “pischello” di Borghetto Prenestino, Ninetto Davoli. «Ho fatto nove film con lui e mentre si girava, ad ogni pausa, Pier Paolo spegneva la cinepresa e accendeva una partitella – interviene Davoli interrompendo le prove de Il vantone di Plauto, traduzione di Pasolini, in scena al prossimo Festival di Spoleto –. Era capace di rinunciare a una conferenza importante, a una trasmissione televisiva, se solo sapeva che c’era la possibilità di andare a giocare con la nostra Nazionale». Quella compagnia di giro del pallone, attraversò l’Italia in lungo e in largo, allo scopo di divertire il suo capitano che, narcisamente, alternava la maglia numero 11 come quella del miglior «poeta realista, Gigi Riva», il 7 di «Mariolino Corso giocatore di gran classe» o il 10 riveriano. Anche se il suo cuore batteva solo per il Bologna e, dopo Biavati, aveva eletto a massimo narratore felsineo, Giacomo Bulgarelli. «Dovevate vederlo, quando Pier Paolo incontrò da vicino Bulgarelli, sembrava avesse visto Gesù», disse divertito il regista e sodale Sergio Citti ricordando l’episodio dei Comizi d’amore, il film documentario (del 1963), in cui Pasolini, tra Moravia, la Fallaci e Ungaretti, trovò il modo di rendere protagonista il mondo del calcio e il Bologna di Bulgarelli.L’onorevole Giacomino, a differenza dei suoi colleghi, non andava a fare le sabbiature estive a Grado e, quindi, non prese parte a quei match da stessa spiaggia stesso mare, in cui Raf Vallone, Bobby Solo e Pasolini da una parte, sfidavano Reja, Sormani e il «fortissimo Capello».Il giudizio tecnico sullo “Stukas” è affidato a due mister che l’hanno conosciuto e allenato, Giovanni Galeone e Giacomo Losi, concordi sul fatto che «Pasolini era bravo e veloce. Molto stimato dai compagni, possedeva un’aurea carismatica quando giocava». Il calcio era per lui anche un modo per dare a chi ne aveva più bisogno. «La soddisfazione più grande di Pier Paolo – continua Davoli –, era proprio quella che divertendoci potevamo aiutare gli altri. Le nostre erano tutte partite di beneficenza». Tornava ragazzino anche Pasolini ogni qual volta allacciava gli scarpini e, con piglio sicuro da capitano, scendeva sui campi spelacchiati delle periferie italiane. Ma nascondeva a fatica l’emozione quando nel ’73, si ritrovò a giostrare nell’immensità partenopea del San Paolo. Eppure all’indomani “Il Mattino” titolava: «Pasolini regista in campo, Comaschi (ex terzino del Napoli) torna leone».Nell’ultima tragica stagione della sua vita, mise in scena il “derby del cinema”. Il 16 marzo 1975, sul terreno della Cittadella di Parma - a due passi dallo stadio Tardini - si trovarono contro “Novecento” e “Centoventi”, ovvero le rispettive formazioni della troupe di Bernardo Bertolucci, che nella città ducale stava girando l’epico Novecento, e quella di Pasolini che nella villa di Pontemerlano di Roncoferraro ultimava il suo scabroso Salò e le centoventi giornate di Sodoma. Il pretesto era festeggiare il 34° compleanno di Bertolucci, ma si parlò anche di una vera e propria “amichevole” di riconciliazione, dopo certe critiche di Pasolini che avrebbero incrinato l’amicizia tra i due. «Tutte storie fasulle, come ogni volta che si parla di Pier Paolo – puntualizza Davoli –. Con Bernardo non aveva litigato per niente, Pier Paolo aveva semplicemente detto che preferiva il Bertolucci di Comare Secca, piuttosto che quello di Ultimo tango a Parigi, tutto lì. E non è vero neanche che Pasolini si arrabbiò perché avevamo perso quella partita contro “Novecento” (i bertolucciani giocarono in tenuta viola e calzettoni psichedelici - a confondere gli avversari - disegnati dalla costumista del film, Gitte Magrini, ndr) che comunque c’aveva fatto lo scherzetto: Bertolucci - che non giocò, era l’allenatore - aveva schierato quattro giocatori veri del Parma... Pier Paolo quando giocava era sempre concentrato e tirato fisicamente, molto mejo di noi più giovani, ma non l’ho mai sentito alzare una sola volta la voce». Il canto del cigno in campo del poeta della scomparsa delle lucciole e degli scritti corsari avvenne a Trapani, il 4 maggio 1975, in quella che Salvatore Mugno ha ritratto in L’ultima partita di Pasolini (Stampa Alternativa). A Trapani Ninetto c’era - «giocai la mia solita partita da “canazzo” difensivo, maglia n.3» - e con Bruno Filippini, Don Backy e l’ex centravanti della Roma, Pedro Manfredini, detto “Piedone”, Pasolini conquistò la sua ultima vittoria, e forse anche il suo sorriso finale. Assassinato nella notte tra l’1 e il 2 novembre del ’75, il cadavere venne ritrovato di domenica, il giorno dedicato al dio pallone. Due giorni dopo l’aspettavano ancora in Sicilia, alla Favorita di Palermo, per vederlo sfrecciare sulla fascia con la maglia n.11. «Quella maglia – dice commosso Davoli – glie l’ho messa nella bara, a Pier Paolo avrebbe fatto piacere». È il termine giusto, perché prima di andarsene in un’intervista concessa a Enzo Biagi, Pasolini confessò: «Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri».
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