giovedì 5 agosto 2021
La riproposta critica delle «litanie» che il poeta gradese compose in morte dell’amico si affianca a un importante volume che ricostruisce l’avventura friulana dello scrittore-regista
Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1922–Roma, 1975)

Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1922–Roma, 1975) - archivio

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È una di quelle parole che si capiscono anche quando non si sa bene che cosa significhino e si ignora perfino da quale lingua provengano. La parlata di Grado, in questo caso, nella quale il termine “critoleo” designa il particolare rumore dei gusci di conchiglia calpestati sulla spiaggia: un crepitio che trasmette la sensazione di qualcosa di sminuzzato e ridotto in frammenti dallo scontro impari tra il fragile e il pesante. El critoleo del corpo fracassao è il titolo delle «litànie» composto da Biagio Marin nel novembre del 1975, in occasione della morte di Pier Paolo Pasolini. Tredici sequenze di quartine in gradese, appunto, apparse per la prima volta nel 1976 sotto il prezioso emblema “All’Insegna del Pesce d’Oro” di Vanni Scheiwiller. A suggerire il titolo era stato proprio l’editore milanese, che di Marin era diventato il principale punto di riferimento grazie alla mediazione dello stesso Pasolini. Come tutto quello che riguarda il legame tra i due poeti, anche quell’episodio era rimasto sul filo dell’equivoco, con Marin che inizialmente rimane perplesso davanti ai volumetti allestiti con cura artigianale da Scheiwiller e solo in un secondo momento si rende conto dell’effettiva caratura dell’editore. Di questa ambivalenza rimane traccia nei versi del Critoleo del corpo fracassao, nei quali la sincera commemorazione dell’amico non impedisce a Marin di pronunciare giudizi severi sulle circostanze che ne hanno portato all’uccisione. Si tratta di un intreccio particolarmente rilevante, che trova ora opportuna documentazione nell’edizione critica allestita da Ivan Crico per la collana “Ardilut”, curata da Giorgio Agamben per Quodlibet. In questa nuova veste El critoleo del corpo fracassao (pagine 88, pagine 14,00) è accompagnato dalla traduzione italiana dello stesso Crico, che adotta la dizione Lo scricchiolio del corpo fracassato, e da un’importante selezione di estratti dai diari inediti di Marin proposta da Pericle Camuffo, al quale si deve anche un interessante saggio critico. Un libro densissimo, dunque, che non soltanto riporta l’attenzione su un piccolo capolavoro della poesia del nostro secondo Novecento, ma torna a mettere in questione più di un aspetto delle figure di Marin e di Pasolini. Al di là delle diverse valutazioni in ambito ideologico e morale, tra i due corre infatti l’indiscutibile affinità garantita dalla comune militanza nella letteratura dialettale. Una posizione, questa, alla quale Marin si mantiene fedele lungo tutto l’arco della sua produzione (nato nel 1891, morì nel 1985) e che per Pasolini rappresenta piuttosto un punto di partenza e, in un certo senso, di arrivo. Aiuta a ricostruire questa parabola una recente pubblicazione del Centro Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, in provincia di Pordenone. Strutturato come catalogo dell’ omonima mostra in corso fino al 3 ottobre, il volume su L’Academiuta e il suo «trepido desiderio di poesia» (a cura di Piero Colussi, Patrizio De Mattio e Rienzo Pellegrini, pagine 224, euro 20; per informazioni www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa. it) si candida a diventare un richiamo obbligato per la comprensione di quelli che vengono definiti «gli anni friulani di Pasolini».

Biagio Marin (Grado, 1891–1985)

Biagio Marin (Grado, 1891–1985) - archivio

Siamo nel periodo che va dal 1943 al 1950, e cioè da quando lo scrittore ripara a Casarsa sotto l’urto dell’8 settembere fino a quando è costretto a trasferirsi a Roma in seguito allo scandalo suscitato dalla sua omosessualità. Ma ancora prima Pasolini, che era nato a Bologna nel 1922, aveva rivendicato le sue ascendenze friulane con l’esordio di Poesie a Casarsa, omaggio al paese di cui era originaria la madre Susanna. La raccolta, edita nel 1942 dal libraio antiquario bolognese Mario Landi, aveva suscitato l’interesse di Gianfranco Contini, le cui osservazioni si rivelarono decisive per il progetto dell’Academiuta de lenga furlana, istituita da Pasolini e da altri intellettuali della zona nel gennaio del 1945, a guerra non ancora conclusa. L’obiettivo è quello di un ripensamento delle tradizione delle lingue romanze, all’interno della quale il friulano viene a collocarsi con dignità sin-È golare. Proprio perché libera dal confronto con precedenti letterari scritti, la lenga furlana può costituirsi come uno strumento di straordinaria duttilità espressiva. In questo senso Pasolini se ne serve per un corpus di testi che è destinata a culminare nella sistemazione complessiva di La meglio gioventù (1954) e nel quale rientra il fondamentale esperimento teatrale di I Turcs tal Friùl. Nel 1951, mentre sta lavorando all’antologia sulla Poesia dialettale del Novecento che uscirà l’anno successivo, Pasolini diventa in un certo senso il Contini di Marin. La sua recensione a I canti de l’isola sottrae il poeta gradese al contesto locale nel quale era noto fino a quel momento e pone le premesse della sua successiva fortuna. Marin ne è consapevole e anche riconoscente, ma non manca di segnare i punti di dissenso. Il primo riguarda l’adesione di Pasolini al marxismo (del quale il gradese mal sopporta l’avversione per «l’esistenza di diseguaglianze naturali, ereditarie, insuperabili, tra le razze,i popoli e gli individui»...), il secondo riguarda invece l’ossessione erotica, alla quale si riferisce ripetutamente con il termine «pederastia». Anche nel Critoleo del corpo fracassao, del resto, si lamenta a più riprese la tendenza al «sesso sfrenao», divenuta «un mortal ritornelo» nell’esistenza di Pasolini che, proprio in quegli anni, era tornato alla poesia in friulano con i versi della Nuova gioventù. «Mé, ero fato in oltro modo: / co’ tu vevo in comun Idio, / de la del mio diverso nio, / e del bocon e de l’amor che godo», scrive Marin in una «litania » tra le più belle (così la rende Crico: «Io ero fatto in altro modo: / con te avevo in comune Dio, / al di là del mio diverso nido, / del cibo e dell’amore di cui godo»). E subito dopo aggiunge: «Ma Dio in comun xe tanto!». Anche in questo caso, si capisce già prima di aver tradotto, così come non ha bisogno di troppi commenti la Prejera (“Preghiera”) che segna uno dei momenti più alti del Pasolini friulano: «Crist pietàt dal nustri paìs».

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