giovedì 9 marzo 2023
Possediamo le nuove tecnologie e ne siamo posseduti. Ci fidiamo di esse quasi fossero umane, ma la loro intelligenza è sintattica e non sarà mai semantica
Ma quanto è "intelligente" l'intelligenza artificiale?

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La Facoltà teologica del Triveneto ha aperto ieri a Padova il XVIII anno accademico. Dopo gli interventi del vescovo di Padova Claudio Cipolla, del patriarca di Venezia Francesco Moraglia, il preside Andrea Toniolo ha svolto la relazione inaugurale. La prolusione è stata affidata ad Adriano Pessina sul tema: “Intelligenza artificiale e condizione umana. Questioni aperte”, di cui proponiamo ampi stralci.

Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, le cosiddette Itc, hanno cambiato i nostri stili di vita. La nozione di onlife, resa popolare dagli studi di Luciano Floridi, mette in evidenza come ci troviamo in una condizione umana in cui i confini della realtà sono dilatati dagli spazi informazionali della rete. La rivoluzione digitale ha creato un nuovo ambiente culturale, forse dovremmo dire, mentale, che interagisce con il mondo empirico nel quale ci troviamo. In effetti, nella nostra vita quotidiana, il confine, il limes, tra l’on-line e l’off-line, diventa sempre più sfumato: basta possedere un cellulare per uscire dal contesto in cui siamo e immergerci in quello spazio digitale che ci porta mentalmente e sensorialmente altrove. Di fatto, il possesso delle nuove tecnologie, la possibilità di accedere alla rete informatica, fa, oggi, la differenza della stessa condizione umana. Possedere, però, a volte, si trasforma nell’essere posseduti. E ognuno sa, anche quando finge di ignorarlo, che i proprietari delle tecnologie informatiche posseggono un numero stratosferico di dati che ci riguardano, profilano i nostri gusti, le nostre relazioni, i nostri convincimenti. Così, la nostra autonomia tecnologica è l’altra faccia della nostra dipendenza. Se agli inizi del Novecento la questione della tecnica era ampiamente dibattuta sotto la categoria della sfida, noi oggi dovremmo, piuttosto, ripensarla sotto il profilo dell’addomesticamento tecnologico. Del resto, non semplicemente “usiamo” gli strumenti tecnologici, ma li “addomestichiamo”, gli attribuiamo un senso inserendoli nel nostro spazio vitale. L’aspetto amicale della tecnologia si rivela nell’allargamento delle nostre possibilità di interazione, di comprensione del mondo, di soluzione di problemi e nelle stesse parole con cui le nominiamo, definendole intelligenti. L’addomesticamento tecnologico è, allora, ambivalente: da una parte le macchine entrano nella domus e diventano parte della vita, dall’altra, come avviene con ogni forma di addomesticamento, noi ci dobbiamo adattare a esse, a un mondo disegnato dai nuovi software. In questo contesto, la svolta fonetica dei nuovi software ha aumentato la nostra dimensione fiduciaria nei confronti di ciò che ormai chiamiamo, indistintamente, intelligenza artificiale. Noi parliamo con le nostre macchine e le macchine ci parlano. Quando, nel 2011, la Apple ha immesso sul mercato Siri, lo ha presentato come un «assistente intelligente che ti aiuta a fare le cose semplicemente chiedendo»: ci abbiamo creduto, senza sapere come funziona, semplicemente perché funziona e risponde al nostro comando «Ehi Siri». La creazione delle chat-bot, che oltre a eseguire molteplici funzioni, sono in grado di stabilire una sorta di conversazione personalizzata, con il singolo utente, ha accelerato il convincimento che si sia di fronte realmente a una qualche forma di intelligenza. Le nuo-ve tecnologie, infatti, sviluppano in modo esponenziale le dimensioni simulative delle attività umane, dandoci l’idea di ottenere un servizio personalizzato, sebbene siano macchine collettive che “apprendono” ed elaborano miliardi di dati attraverso un’analisi statistica in grado di generare, sotto la supervisione dei tecnici, mappe linguistiche sempre più sofisticate. Il linguaggio antropomorfo con cui siamo abituati a descrivere questi processi logico-formali, a struttura statistica, rischia di farci dimenticare che, in realtà, domandare, ascoltare, capire, rispondere, obbedire, sono esperienze molto complesse che poco hanno a che fare con le operazioni attuate dalle nuove tecnologie. In realtà, le macchine non ci parlano, non ci ascoltano, non ci rispondono, semplicemente perché non sanno nemmeno che esistiamo e non capiscono che cosa ci stanno dicendo. A nessuno di noi verrebbe in mente di affermare che il semaforo rosso ci dice di fermarci o che il suono della sveglia ci dice che è ora di alzarci. Ma la simulazione della voce umana, la rimodulazione di segnali sonori che noi comprendiamo alla stregua di un dialogo, ha trasformato in modo radicale il nostro rapporto con i nuovi artefatti tecnologici e ha dilatato l’aspetto fiduciario nei confronti dei dati e dei risultati che ci forniscono. Le macchine, per semplificare al massimo, mettono insieme una sequenza di segni alfabetici che per noi sono però “parole” dense di significato e infatti siamo in grado di valutare se le risposte sono vere o false: per i sistemi tecnologici, questi termini sono però insensati, perché il loro risultato è semplicemente esatto rispetto alla coerenza formale con cui sono stati elaborati i dati acquisiti. Per questo le macchine non mentono e non sbagliano, perché non sanno e non scelgono: eseguono i diversi percorsi resi possibili dai loro programmatori. Ma per esse vale sempre l’antico adagio: se ai software si forniscono dati spazzatura, si ottengono risultati spazzatura. Pensare di accedere alla verità attraverso processi logico-formali è, non dimentichiamolo, il grande sogno di una parte della filosofia, che affonda le radici nella costruzione dei modelli sillogistici. Ma tradurre il linguaggio in segni univoci, formule, numeri da assemblare, per quanto utilissimo in molti contesti del sapere, ci priva della comprensione delle sfumature della realtà e della nostra esperienza, che sono il fondamento delle domande di senso dell’esistere. Un’intelligenza sintattica, come quella delle macchine, non può sostituire un’intelligenza semantica e non dovremmo mai dimenticare che i programmatori di software sono in grado di fare una traduzione della semantica in sintassi perché, in quanto uomini, possiedono entrambe le dimensioni dell’intelligere. Noi ci fidiamo dei risultati dei nostri “calcolatori” e, per usare un gioco di parole, contiamo su di essi. E abbiamo vari motivi per farlo.

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