sabato 12 aprile 2014
​Torna la corsa fuori dal tempo, distante ere sportive dai pedali di oggi. Solo 20 italiani al via e appena un paio possono aspirare a mettersi in mostra in questa rassegna della fatica. (Giuliano Traini)
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Un reperto archeologico, ecco cos’è la Parigi Roubaix. Una corsa fuori dal tempo, distante ere ciclistiche dallo sport che si pedala oggi. Solo le bici ci ricordano che siamo nel ventunesimo secolo. Anche il colore della polvere che si impasta al sudore non è più quello di qualche anno fa, quando i minatori ancora grattavano il carbone sottoterra. Tutto il resto è uguale alla fine dell’Ottocento, stesse pietre sulle quali cercare di mantenere l’equilibrio, stessa fatica, stesse smorfie di dolore sui visi dei ciclisti. Per i corridori è l’“inferno del nord”, per gli appassionati un’emozione da seguire attentamente, senza perdere di vista i protagonisti, facendo continuamente la conta su chi è rimasto in piedi a lottare per la vittoria e chi viaggia come un naufrago, perso nelle retrovie. Perché da questa corsa non ci si ritira - a meno che non si abbia qualche osso rotto - si va fino in fondo anche se al traguardo i primi hanno già fatto la doccia. La Roubaix è una leggenda e portarla a termine significa entrare a far parte di quella leggenda che nemmeno il dio denaro è riuscito a intaccare. Anche il marketing si arrese trenta anni fa quando qualcuno aveva voluto spostare la linea d’arrivo davanti ai cancelli di una fabbrica, ma un banale rettilineo asfaltato non poteva competere con il fascino della pista. E il tentativo di monetizzare il mito si rivelò un boomerang. La tradizione aveva vinto. Una lezione che dovrebbero tenere a mente anche i dirigenti mondiali del ciclismo – che all’epoca forse nemmeno seguivano le corse – nelle loro manovre per snaturare questo sport. Da Compiegne, cittadina a nord di Parigi dove parte la corsa, al velodromo di Roubaix ci sono 157 chilometri, ma per i corridori si fa un’eccezione: se ne aggiungono 100 tondi tondi, si fa per dire visto che la metà di questi sono tutti in pavé. Ed è proprio alla ricerca dei tratti della preziosa quanto sconnessa carrareccia che la carovana inizia a zigzagare per la grigia campagna al confine con il Belgio. Il paesaggio piatto non offre punti di orientamento, a scandire il percorso ci sono solo gli impietosi cartelli che segnalano l’avvio dei tratti di pavé, un crudele conto alla rovescia fino all’ultima striscia di asfalto che immette nella pista. La Roubaix è la contraddizione dello sport moderno. Una contraddizione anche dialettica: per vincerla non si invoca la fortuna, ma si chiede di non essere vessati dalla sfortuna. Perché una caduta o una foratura possono segnare la corsa anche del più forte. E il più forte quest’anno è ancora Fabian Cancellara, il campione uscente che ha realizzato il tris domenica scorsa al Giro delle Fiandre e ora punta al poker nella classica del pavé. Il granatiere di Berna ha la freddezza degli svizzeri, trasmessa dalla mamma,  e la tempra dei contadini lucani, ereditata dal padre. E la quota di cromosomi meridionali di Cancellara sarà l’unica traccia tricolore che si vedrà in corsa: solo 20 gli italiani al via e appena un paio possono correre per un piazzamento dignitoso, anche se lontano dal podio. (Diretta tv: Rai Sport 2, ore 12.35 e Rai 3, ore 15)
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