sabato 9 ottobre 2021
Mentre continua l’edizione dell’opera completa del grande pensatore italiano, nell’ultimo volume una riflessione che smonta le teorie del relativismo postmodernista
Il filosofo Luigi Pareyson, di cui ricorrono i trent’anni della morte

Il filosofo Luigi Pareyson, di cui ricorrono i trent’anni della morte - archivio

COMMENTA E CONDIVIDI

Luigi Pareyson aveva suggerito, prima di morire nel 1991, di ripartire i 24 saggi contenuti in questo volume in quattro sezioni: filosofia dell’esistenza, idealismo, esistenzialismo positivo e spiritualismo cristiano, dibattiti odierni, più un’appendice intitolata “La filosofia italiana alla fine degli anni Quaranta”. Alcuni di questi scritti, nonostante la loro freschezza, sono di data lontana (il saggio su Spirito e Della Volpe del 1947, quello su Marcel del 1948) mentre altri sono di data ben più recente (uno su Guzzo è del 1987 e uno su Maddalena del 1989). Ma, in questo Prospettive di filosofia contemporanea, XVII volume delle Opere complete curato da Francesco Tomatis (Mursia, pagine 638, euro 34,00) sono compresi anche saggi su Croce, Martinetti, Abbagnano, Stefanini, Soleri, mentre nell’“Appendice” trova posto un inedito – che qui in parte anticipiamo – sulla ricerca della verità. Un discorso che mette in guardia dall’idea relativistica che non esista o non si possa attingere una verità, ma anche dal rigorismo che ne dà un’affermazione assoluta.


Fui tra gli introduttori dell’esistenzialismo in Italia nella seconda metà degli anni 30. Un mio articolo del ’38 per la prima volta in Italia accostava Heidegger e Jaspers. Il mio libro del ’40 su Jaspers era in realtà uno sguardo d’insieme su tutto l’esistenzialismo. Entravo nel vivo dell’attualità, non solo perché allora l’esistenzialismo era l’ultima voce della filosofia, ma anche perché alla fine della guerra, dopo la liberazione, entrava nella nostra cultura il marxismo, di cui l’esistenzialismo è l’alternativa naturale, storica. Infatti, esistenzialismo e marxismo sono le due possibilità tipiche della dissoluzione dell’hegelismo, che si erano presentate in alternativa cento anni prima sulla scena europea: da un lato la linea Feuerbach-Marx, dall’altro la linea Kierkegaard. Queste due possibilità riemergono a distanza di duecento anni sulla scena filosofica europea: entrambe legate alla filosofia hegeliana di cui erano la dissoluzione, e legate fra di loro in antitesi. La problematica era comune, le soluzioni erano opposte. Sì che ogni antitesi al marxismo doveva assumere necessariamente in qualche modo un aspetto esistenzialistico; e il marxismo rinasceva (neomarxismo) come necessariamente antiesistenzialista. E ciò sebbene, ripeto, la loro problematica fosse comune.

Ora, se l’attualità era contenuta nella dissoluzione dell’hegelismo, ciò attesta la centralità della filosofia hegeliana da centocinquanta anni ad oggi. Hegel è il culmine della filosofia moderna e come tale è da un secolo e mezzo un punto di riferimento obbligato. E se attuale e interessante era studiarne la dissoluzione, altrettanto interessante e attuale era studiarne la genesi nella filosofia europea, cioè studiare nei suoi predecessori quelle critiche ante litteram che dovevano poi agire come germi di dissolvimento. È dunque per una ragione squisitamente teoretica, speculativa, che ho studiato sia Fichte che Schelling, che prefigurano quella polemica antihegeliana ch’è ancor oggi il colmo dell’attualità, anche perché certe forme di neomarxismo si possono considerare in fondo come un recupero dell’hegelismo [...].

Ho detto che il marxismo è una forma di storicismo assoluto, e in ciò rientra o perlomeno s’incontra con un movimento più ampio, che interessa larghi strati della nostra cultura, che, educata dall’idealismo allo storicismo, lo ha poi proseguito in una forma di totale relativismo, che sopprime totalmente il concetto di verità. Tutti sono d’accordo oggi (meno forse i metafisici vecchio stile, che non hanno fatto la differenza tra metafisica e ontologia) nel ritenere che non c’è formulazione definitiva della verità, che il dovere morale è annunciato in maniera diversa a seconda dei tempi, che ogni epoca ha la sua concezione della bellezza, che ogni popolo ha una sua

Welt-Anschauung

, e così via. Da questa giusta constatazione il relativismo deriva la conclusione che non c’è nulla di fisso e di stabile, che i valori sono relativi al loro tempo e non contengono nulla di assoluto, che insomma le idee non sono se non espressione del tempo, e che la verità non esiste. Ora questa conclusione, francamente, prova troppo: va molto oltre le premesse. Si formula un’antitesi che anche formalmente è falsa: o esiste una verità assoluta e definitiva, o non c’è nulla di vero perché tutto è relativo. Il fatto è che è ben vero che non c’è formulazione definitiva, assoluta, universale, della verità, ma ciò non toglie che ciascuno debba cercare la verità e possa trovarla a suo modo e considerarla come assoluta, beninteso assoluta per me che l’ho cercata e che ne sono convinto e magari tento di convincerne gli altri, ma sempre rispettando essi stessi e la loro verità, ed esponendo alla discussione e alla contestazione altrui pronto ad abbandonarla se me ne dimostrano l’insufficienza, ma a difenderla se ne sono in buona fede convinto. Insomma esiste una verità assoluta, ch’io debbo cercare con tutte le mie forze e tentare di formulare a modo mio. Certo, il cammino è accidentatissimo: la verità bisogna cercarla, ed ecco qui tutto il rischio della ricerca, il costante pericolo del fallimento, la serie continua degli insuccessi; poi bisogna trovarla, e darne una formulazione, ma anche qui il rischio è grandissimo, perché c’è il pericolo non solo di non saperla formulare, ma lasciarla nel vano e nell’indistinto, ma anche di irrigidire e assolutizzare per sempre, il che è non solo impossibile, ma anche illusorio ed erroneo e falsificante.

Tutto ciò io soglio esporlo dicendo che verità e persona sono inseparabili, che la formulazione della verità è sempre storica e personale, che la verità è unica ma la formulazione che se ne dà, cioè l’interpretazione che se ne propone, è sempre molteplice, e che l’unità cioè l’orizzonte del vero è il dialogo che attraverso il consenso o la discussione polemica si instaura fra queste molteplici e diverse interpretazioni della verità, che la verità non si offre se non all’interno dell’interpretazione che se ne dà, che l’interpretazione che si dà sempre singolarmente della verità non è una semplice approssimazione alla verità, non è un possesso della verità, anzi la verità stessa come personalmente posseduta, che il pensiero è sempre storico, personale, molteplice, mutevole, cioè espressivo, ma oltre a questo pensiero ch’è soltanto storico ed espressivo (che è quello che il relativismo considera come unico, cioè assolutizza) c’è anche un pensiero che, al tempo stesso ch’è storico, personale, espressivo, è anche rivelativo della verità (sempre da un angolo personale) che il relativismo non considera, ingannato dall’aspetto ch’è comune a entrambi, cioè la storicità, la mutevolezza, l’aspetto espressivo.

Il relativismo, sopprimendo la verità, è il padre di quello che si chiama crisi dei valori, dello scetticismo d’una parte della gioventù d’oggi e dell’irrazionalismo a cui per contraccolpo un’altra parte di essa si aggrappa, della totale incertezza della distinzione fra bene e male, anzi dell’indifferenza verso questa distinzione, con la conseguenza che tutto è egualmente lecito, donde lassismo, permissivismo, e, in fondo, disperazione e peggio. Ciò voleva dire Dostoevskij quando sosteneva: Se Dio non esiste, tutto è permesso. E soggiungeva: anche l’antropofagia. E infatti, se non c’è distinzione fra bene e male, perché escludere come male l’antropofagia? Per via consequenziale, ne potrebbe derivare, alla Jonathan Swift, una "modesta proposta": introduciamo l’antropofagia, che potrebbe essere la soluzione dei preoccupanti problemi della sovrappopolazione del globo e delle decrescenti risorse della terra.
La meditazione che ho così condotto mi ha portato ad affrontare il problema del male e della sofferenza, che con tanta intensità affliggono il genere umano, come s’è abbondantemente potuto constatare proprio in questo secolo. È a questo problema che mi sono dedicato negli ultimi anni e nel quale sono attualmente impegnato. Qui si presenta una constatazione preliminare, ed è che la filosofia si è dimostrata generalmente incapace di affrontare validamente questo problema. È solo da Kant, attraverso Schelling, in parte Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, l’esistenzialismo, che si è cominciato ad approfondire questo problema. Esso si trova invece egregiamente affrontato in quello che si può chiamare mito, nel senso più intenso del termine, cioè nell’arte, specialmente nella tragedia, sia antica come quella greca sia moderna come Dostoevskij, e nella religione, specialmente nella religione biblica e cristiana. Anche i filosofi che meglio hanno trattato il problema vi sono riusciti più come cristiani che come filosofi: alludo, ad esempio, a S. Agostino e Pascal. Dostoevskij non è stato un filosofo, ma la filosofia ha molto da imparare da lui, perché nessuno scrittore ha meditato con tanta profondità come lui sulla tragica condizione dell’uomo, così inesauribile nel fare e subire il male e così facile preda della sofferenza. E nessuna religione come la cristiana ha saputo interpretare l’uomo alla purissima luce del male e del dolore, al punto da coinvolgervi la stessa divinità. Già Hegel aveva messo la tragica vicenda del Dio sofferente e redentore al centro della stessa filosofia, ma per un paradossale capovolgimento ne era risultato un sistema che giustifica e quindi nega sia la sofferenza che il male. L’idea profonda della presenza del male e del dolore in Dio stesso, cioè al centro della realtà, come una grande vicenda cosmoteandrica, sta al centro dell’esperienza religiosa cristiana: saper penetrare con la riflessione filosofica in quel mistero, e renderlo parlante per tutti gli uomini, credenti o non credenti, può essere il compito e l’ambizione d’una filosofia che sappia imparare dall’esperienza religiosa senza pretendere di tradurla in termini filosofici e senza asservirsi ad essa, ma parlando il proprio linguaggio e mantenendo la sua rigorosa autonomia.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: