lunedì 11 gennaio 2010
Grande entusiasmo nel Paese sudamericano, che nel 2011 celebrerà i duecento anni della sua indipendenza. Un’occasione per ritrovare la propria memoria ma anche per lasciarsi alle spalle i decenni della dittatura. Solo gli indios non prenderanno parte alla festa.
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Mentre l’Italia si prepara a (non) celebrare il 2011, il lontano Paraguay fa le cose in grande. Fra un anno, infatti, mentre noi ricorderemo il centocinquantenario dell’unificazione, il Paraguay festeggerà il bicentenario dell’indipendenza. Entusiasmo di là dell’Atlantico, quasi indifferenza qui da noi. Un confronto che fa pensare, anche perché la storia di questo Paese non è stata una passeggiata ma una sequenza di prove dolorose, forse più delle nostre, che hanno lasciato cicatrici non ancora rimarginate. Quando l’America latina cominciò a sganciarsi dalla Spagna, i paraguaiani di Asunción furono lesti a far sapere agli argentini, con i quali erano stati uniti durante il periodo coloniale nel Vicereame de la Plata, che avrebbero fatto da soli. Nella Giunta che subito proclamò l’indipendenza - era il mese di maggio del 1811 - emerse la figura di José Gaspar Rodriguez de Francia, prima console e poi 'dittatore a vita' (morirà nel 1840) del Paese. Grande ammiratore del sistema costituzionale romano, fu una delle figure più originali dell’intera storia sudamericana. Sotto il suo governo il Paese, che al tempo del la colonia era stato un inquieto e semiselvaggio avamposto di frontiera, tratto dall’anonimato soltanto dalle missioni dei gesuiti fra i guaraní, le celebri Riduzioni, conobbe un periodo di progresso civile e prosperità economica che non si ripeterà più. La prima ferrovia del Sud America, i cui resti costituiscono oggi una delle attrattive turistiche della capitale, fu costruita qui. Il disastro sopraggiunse nella seconda metà del secolo, quando, divenuto ormai una potenza temibile e temuta da tutti gli stati vicini, fu schiacciato dall’alleanza militare di Argentina, Brasile e Uruguay, sostenuti dall’Inghilterra, e rovinosamente sconfitto nel 1870 in quella guerra della Triplice Alleanza, che costituì un evento fondamentale per il futuro di tutto il subcontinente sudamericano. Il Paraguay ne uscì in frantumi. Spopolato (sopravvissero quasi soltanto le donne e i bambini), ridimensionato (perdette circa metà del territorio), sottoposto per anni ad occupazione militare brasiliana, saccheggiato e semidistrutto (è allora che i resti delle Riduzioni subirono la devastazione definitiva), si riprese molto lentamente e soltanto grazie all’immigrazione europea, che ne cambiò completamente il volto etnico. Prima era una terra di meticci, dopo il ’70 prevalse e si impose la componente importata dall’Europa. C’era tutto da fare e alcune migliaia di italiani – sono gli anni della grande emigrazione dalla penisola – scelsero di stabilirsi in questa terra. L’edilizia, l’agricoltura, l’allevamento e le professioni liberali devono molto al loro apporto. Secondo un rapporto consolare del 1903 «la maggior parte dei medici» veniva dall’Italia, mentre Luigi Balzan, fratello maggiore di Eugenio, il mitico comproprietario del Corriere della Sera , insegnò per diversi anni al Collegio Nazionale di Asunción, che allora fungeva da università, prima di iniziare il viaggio nelle regioni inesplorate del Sud America che ne ha fatto uno dei più arditi esploratori. Anche la riscoperta delle Riduzioni deve molto ai nostri connazionali, soprattutto all’antropologo Paolo Mantegazza, che ne lasciò nel 1870 una minuta descrizione. Figlio di italiani era Silvio Pettirossi, celebre e spericolato aviatore (morirà nel 1916) cui oggi è intitolato l’aeroporto di Asunción, che per imparare a volare era tornato in Italia. Ma il più noto dei nostri connazionali che contribuirono al progresso del Paraguay fu certamente l’antropologo, fotografo e pittore Guido Boggiani, una figura conosciuta dovunque tranne che da noi: in Wikipedia, incredibilmente, è biografato alla grande in varie lingue ma non nella nostra. e traversie ottocentesche avevano lasciato irrisolta la questione della sovranità sulla regione del Chaco, a nord, dove s’era stabilita un’attiva comunità di mennoniti tedeschi, che continuano anche oggi a parlare la loro lingua. Qui i confini definitivi, coincidenti con quelli attuali, saranno fissati solo nel 1935, al termine di un nuovo conflitto con la Bolivia, la Guerra del Chaco. Dopo il secondo conflitto mondiale la pesante dittatura di Alfredo Stroessner (1954-1989) prostrò e isolò nuovamente questo Lsfortunato paese, che al tempo delle missioni fra i guaraní il nostro Ludovico Antonio Muratori considerava una specie di paradiso in terra. Oggi, archiviati i ricordi dolorosi del passato (ma la tragedia del 1870 continua a tornare quasi ossessivamente in ogni discorso pubblico), ben inserito nel Mercosur, energeticamente sicuro grazie alla gigantesca diga di Itaipú, osservato con attenzione in tutta l’America per l’inedita esperienza di un ecclesiastico, l’ex vescovo Fernando Lugo, alla presidenza della repubblica, il Paraguay si appresta a festeggiare il bicentenario con molte manifestazioni di peso. Gli unici che non lo festeggeranno sono i circa 80.000 indigeni superstiti, riconosciuti dall’articolo 62 dell’attuale costituzione come «anteriores a la formación del Estato paraguayo», ma soggetti ormai ad un’inarrestabile marginalizzazione. La classificazione del loro mondo, delle diverse famiglie etniche (una ventina, fra cui prevalgono i guaranì, nobilitati dall’attuale pontefice con gli auguri natalizi anche nella loro parlata) e linguistiche (si esprimono almeno sette idiomi diversi) è opera del salesiano italiano José Zanardini, antropologo all’Università Cattolica di Asunción e autore del minuzioso atlante etnico Los indigenas del Paraguay (Asunción, 2006). Indigeni a parte, insomma, in Paraguay non mancano, orgoglio del passato e speranza nel futuro. Due sentimenti che da noi sembrano scomparsi.
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