venerdì 19 maggio 2023
Un padre gesuita nel 1639 documenta che furono gli indigeni del piccolo Paese sudamericano a inventare il gioco del pallone «non con le mani ma con i piedi»
Paraguay, un’illustrazione del XVII secolo: i guaranì inventori del calcio

Paraguay, un’illustrazione del XVII secolo: i guaranì inventori del calcio

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Non stiamo parlando della mitica Selección argentina campione del mondo in carica. Nè della leggendaria Seleçao e del fútbol bailado brasiliano e neppure della gloriosa Celeste uruguayana che mise in atto il Maracanazo del 1950 facendo piangere e addirittura “suicidare” il Brasile. Ma qui rispolveriamno la storia della piccola grande Albirroja, la casacca biancorossa della nazionale di calcio che è il fiore all’occhiello del Paraguay (repubblica di poco più di 7 milioni di abitanti). Nel bel libro Locos per el futbol di Carlo Pizzigoni, il quale con un biglietto di solo andata, del costo di una tratta regionale, ci dà la possibilità di viaggiare intorno al pianeta Fùtbol sudamericano. E dopo aver perlustrato tutti gli splendori, gli dei immensi dell’epica memoria di cuoio, ma anche le miserie umane e le atrocità dei totalitarismi reiterati in quei Paesi, si arriva a un approdo semisconosciuto ai più, il capitolo, quasi finale (l’ultimo è sull’Ecuador) in cui andiamo letteralmente alla “scoperta” del Paraguay. La terra dove, forse, è stato inventato il gioco del calcio. La storia di cuoio racconta che il primato se lo contendono da sempre inglesi, fiorentini e cinesi, ma in Paraguay possiedono documenti alla mano al quanto in alto. Fonti gesuite. La Compagnia di Gesù, lì, come in altre terre sudamericane, fondò le reducciònes (villaggi di comunità indigene organizzate secondo principi comunitari di condivisione) dove i guaranì praticavano un gioco mai visto prima. In un atto del 1639 firmato da un padre gesuita si «certifica che i guaranì non giocano la palla con le mani, come noi, ma usano i piedi. Giocano scalzi e utilizzano le parti inferiori con destrezza e abilità».

Sono loro dunque, i guaranì, i veri padri di tutti i palloni d’oro generati nei secoli dal Sudamerica, miniera inesauribile di talenti, di craque stellari che partendo dalla polvere dei campetti “alla fine del mondo” si sono imposti nelle varie ere al centro del villaggio, ormai globale, del calcio. E anche il Paraguay ha generato i suoi piccoli eroi esemplari del futbol, anche se Pizzigoni precisa con dovizia tecnica che la destrezza e l’abilità di cui parlavano i gesuiti non è confermata dallo sviluppo storico del calcio all’ombra di Asunción. La capitale fondata nel 1537 dagli spagnoli che unendosi al ceppo originario guaranì hanno dato vita a una società mista il cui bilinguismo continua ad avere i suoi influssi anche su un campo di pallone. Anche se la prima stella del calcio paraguayano, e uno dei più grandi di sempre del calcio sudamericano, non a caso idolo dell’immenso Alfredo Di Stefano, era il figlio di immigrati italiani: Arsenio Erico. Un talento che allo scoppio della “Guerra del Chaco”, dal nome della regione (unico possibile sbocco sull’Atlantico di un paese che non è bagnato dal mare) contesa con la Bolivia, non potendo essere arruolato dall’esercito paraguayano venne convocato dalla selezione calcistica della Croce Rossa che viaggiava per tutto il continente latinoamericano disputando amichevoli volte alla raccolta fondi per la cura dei mutilati di guerra. Un fenomeno quel 15enne cresciuto nel Nacional di Asunción, un divo precoce dal volto angelico e il passo elegante da tanghero con tanto di bulbo stirato dalla brillantina che al passaggio della squadra della Croce Rossa in Argentina venne intercettato dai dirigenti dell’Indipendiente di Avellaneda, i quali stregati da “El saltarin Rojo” lo misero subito sotto contratto.

Da quel momento divenne l’idolo, il “Semillero di Avellaneda”, una machina da gol (295 reti in 325 partite con la maglia dell’Indipendiente, oltre 300 nel campionato argentino, ). «Prima di iniziare la gara andava dal suo avversario diretto per annunciare il numero di reti che avrebbe segnato da lì a poco. Raramente sbagliava», racconta Pizzigoni. Una stagione grazie alle 43 reti segnate (con largo anticipo sulla fine del campionato ) vinse il premio speciale messo in palio dallo sponsor, la marca di sigarette argentine “43”. Un bomber infallibile Erico e un innovatore del gesto tecnico. Il primo “scorpione” mai visto su un campo di calcio non spetta mica al portiere colombiano Higuita, ma sempre a lui, all’antesignano anche nel nomignolo di Pelè: “Rey del gol” Arsenio in un match contro il Boca Juniors del 1934 segnò con quel fantastico e inedito colpo, palla che lo scavalca e lui che la colpisce al volo con entrambi i tacchetti. La grande anima di Erico volò via per sempre (nel 1977) alla vigilia del derby River Plate-Indipendiente e dopo il vantaggio del River si alzò alto al cielo di Buenos Aires il coro dei tifosi dell’Avellaneda: «Se siente, se sient, Erico staaà presente!». L’Indipendiente alla fine vinse grazie anche all’assist celestiale della gloria paraguayana che tornò a riposare nella sua terra nel 2010, scortato da un corteo di folla che accompagnò le esequie del grande Arsenio fino al mausoleo dell’Estadio Defensores del Chaco. Una cerimonia, sottolinea Pizzigoni, «come e più di un capo di Stato». E quanto un premier veniva considerato anche Fleitas Solich, centrocampista del Nacional de Asunciòn, ricordato come l’allenatore e il ct per antonomasia della storia del calcio paraguagio. Un nomade della panchina che come Erico trovò fortuna in Argentina allenando il Lanus, il Quilmes e poi nella città di Che Guevara, Messi e Bielsa, a Rosario (sponda Newells’) .

Tornato in patria prende in mano e rifonda il Nacional e poi assume l’incarico, in pratica a vita, di direttore tecnico della nazionale. E con lui la preparazione tecnica dei giocatori e le regole da rispettare fuori e dentro lo spogliatoio diventano dogmi sui quali costruirà le fortune del Paraguay. Tre anni dopo il Maracanazo, anche il Paraguay di Solich alla Copa America che si teneva in Perù, fece piangere il Brasile: 3-2 nella finale che regalava all’Albirroja il suo primo titolo continentale (bis nel 1979). In quello stesso anno il tecnico di Asunciòn venne ingaggiato dal Flamengo dove incise ancora con le sue rivoluzionarie strategie tattiche vincendo il titolo nazionale per tre stagioni di seguito, dal 1953 al 1955. Quando venne richiamato al Flamengo negli anni ’70 il guru Fleitas tenne a battesimo Zico che da fringuello implume e dal fisico gracile si trasformò nel n.“10” planetario della Seleçao. Fin qui solo splendori, ma le miserie in Paraguay cominciarono con la dittatura del generale Alfredo Stroessner, un nazista nel dna, figlio di emigrati bavaresi che ha avuto sulla coscienza oltre 30mila desaparecidos paraguayani. Come da noi il Duce ebbe il suo gerarca Leandro Arpinati a capo della federcalcio, anche Fleitas capì l’importanza del futbol e fece dell’ex calciatore e giornalista sportivo Nicolàs Leoz, figlio della baraccopoli di Asunciòn, il capo della federazione. L’abilità diplomatica di Leoz lo portò poi per 27 anni alla presidenza della Confederación sudamericana de Fútbol (Conmebol).

Un’altra velata dittatura, longeva quanto quella di Stroessner che venne defenestrato nel 1989, quando riparò esule a Brasilia dove morì nel 2006. L’anno magico di Gerardo Martino detto “El Tata” che in quella stagione tornò ad allenare il Libertad di Asunciòn e vinse il campionato d’apertura e di clausura raggiungendo la semifinale della Libertadores. Poi “El Tata” ha fatto il ct del Paraguay nel quadriennio 2007-2011 in cui riportò l’Albirroja ai Mondiali, nel 2010, raggiungendo il massimo risultato di sempre, i quarti di finale (sconfitti 1-0 nei minuti finali dalla Spagna campione del mondo). Ironia della sorte, Martino si dimette da ct nel 2011, dopo aver perso la finale della Copa America, contro l’Uruguay che adesso è nelle mani del suo maestro, “El Loco” Bielsa. Corsi e ricorsi dal piccolo grande Paraguay.

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