mercoledì 19 dicembre 2012
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Quello che viviamo a Taizé oggi, come comunità ecumenica, sarebbe impensabile senza la realtà del Concilio. Se, da ragazzo cattolico di 16 anni, sono potuto andare a Taizé nel 1970 e approfondire la mia fede con cristiani di diverse confessioni, è grazie al Concilio Vaticano II. Ho sentito spesso frère Roger ripetere queste parole: «Il fondatore di Taizé è Giovanni XXIII». E in un certo senso è vero. Anche Giuseppe Roncalli, il fratello più giovane del Papa, un giorno espresse questo pensiero. Passato qualche anno dalla morte di Giovanni XXIII, Giuseppe Roncalli si recò a Taizé insieme a dei familiari, per due volte. Osservò l’insieme della nostra vita e della nostra accoglienza, e notò come semplicemente fossero accolti i giovani. E una sera disse a suo nipote Fulgenzio, che lo accompagnava: «Ciò che uscirà da Taizé è mio fratello, il Papa, che l’ha iniziato». Per far capire tale influenza di Giovanni XXIII e del Vaticano II su Taizé, mi sembra importante tratteggiare la presenza di frère Roger a Roma durante i quattro anni conciliari. Su richiesta del cardinale Gerlier, allora arcivescovo di Lione, papa Giovanni XXIII ricevette frère Roger e frère Max già qualche giorno dopo la sua elezione. Da subito, tra il Papa e il priore di Taizé si creò un legame che potremmo quasi definire di parentela, un legame di cuori. Frère Roger sarebbe ritornato ogni anno a trovare il Papa. Il cardinale Marty, arcivescovo di Parigi affermò un giorno: «È grazie al fatto che Giovanni XXIII conobbe personalmente i fratelli di Taizé che trovò il coraggio di invitare degli osservatori non cattolici al Concilio».
Dal momento in cui riceve la lettera d’invito per lui e per frère Max al Concilio, frère Roger è convinto di non dover semplicemente partecipare all’assemblea, ma di dover portare a Roma la vita di Taizé. Desidera innanzitutto che Taizé vi garantisca una presenza di preghiera, in particolare di preghiera per l’unità dei cristiani. Bisogna trovare dunque un’abitazione in città, in cui diversi fratelli possano abitare, per pregare insieme come a Taizé, e accogliere. Viene così preso in affitto un appartamento di quattro stanze in via del Plebiscito, in pieno centro di Roma, non molto lontano dal Vaticano. L’accoglienza è essenziale, in questo alloggio romano dei fratelli, specialmente in occasione dei pasti, a mezzogiorno e alla sera. I ricordi di questa accoglienza si trovano in molti diari del Concilio pubblicati negli ultimi anni, dei cardinali Congar, de Lubac, del vescovo brasiliano Hélder Câmara. Ad esempio, dopo essere stato invitato dai fratelli, padre Congar scrive: «Hanno saputo ricreare il proprio clima nell’appartamento che abitano. Ricevono molti ospiti. Praticamente non c’è pasto a cui non siano invitati a volte fino a cinque o sei vescovi. E così, in questo momento, si tiene un Concilio fatto di conciliaboli e di amicizie, che contribuisce a creare il clima del Concilio propriamente detto». Sempre, prima di sedersi a tavola, gli ospiti partecipano alla preghiera comune dei fratelli. Le pietanze sono frugali. Alcuni vescovi si confidano tra loro: «Prima di andare a pranzo dai fratelli di Taizé, meglio mangiare qualcosa a casa propria...». Nell’appartamento c’è spesso del riso, salsa al pomodoro e un po’ di vino, e sempre dei fiori sulla tavola.
Gli ospiti vengono spesso da molto lontano. Frère Roger vuole approfittare dell’opportunità offerta dall’assemblea conciliare e dare preferenza a chi viene da altri continenti, in special modo ai latinoamericani, con i quali si stringeranno delle amicizie durature. Si susseguono anche osservatori ortodossi e protestanti, esperti, uditori e uditrici laici, giornalisti... Attorno alla mensa si approfondisce l’esperienza unica di tutti i padri conciliari nella basilica di San Pietro: un’esperienza di comunione ecclesiale e umana determinante. Frère Roger scrive ai fratelli di quanto gli scambi insegnino ad accettare la diversità, e i dibattiti spingano a capire chi è lontano, per origine e posizione. E non si risparmia la fatica di tessere legami con le minoranze opposte agli orientamenti del Concilio. Scriveva ai fratelli: «Ogni volta che qualcuno interviene per chiedere una maggior attenzione alla Bibbia, a una pietà di cui Cristo vivente sia il centro, la mia anima trasale di contentezza. […] L’attenzione si fa intensa quando, sotto le volte di San Pietro, sentiamo un vescovo affermare ciò che corrisponde alle nostre aspirazioni essenziali: la presenza del cristiano nel mondo contemporaneo, la comunicazione del Vangelo, la ricerca della pace».
Poco prima della morte, in occasione dell’ultima udienza concessa a frère Roger e a due fratelli, Giovanni XXIII ribadì la sua visione del posto di Taizé nella Chiesa. Con grandi gesti circolari delle mani disse: «La Chiesa cattolica è costituita da cerchi concentrici sempre più grandi, sempre più grandi». In che cerchio vedesse la nostra comunità, non l’ha precisato. Ma frère Roger capì come per il papa fossimo all’interno dei cerchi, e come l’essenziale fosse già compiuto. Si parlava all’epoca di «Chiesa dei poveri»: frère Roger non amava molto quest’espressione; per lui la Chiesa era quella di tutti. Il titolo di una piccola opera di padre Congar gli era invece più caro: «Per una Chiesa serva e povera». Durante il Concilio frère Roger si è profondamente legato a numerosi vescovi latinoamericani. È anche grazie a questi contatti che si sono potute gettare le fondamenta delle nostre piccole fraternità che vivono fra i più poveri dei continenti del sud.
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