giovedì 3 novembre 2022
Nel nuovo libro di Riccardi i drammi di Pio XII, dal nazismo alla Shoah, e una riflessione sugli anni ’39-’45, visti come una sconfitta di tutti, per capire rischi e incongruenze delle guerre
Pio XII durante la sua visita agli abitanti del quartiere di San Lorenzo a Roma distrutto dai bombardamenti nel luglio del 1943

Pio XII durante la sua visita agli abitanti del quartiere di San Lorenzo a Roma distrutto dai bombardamenti nel luglio del 1943 - Ansa

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La figura di Pio XII è certamente controversa. Da un lato fu protagonista di azioni riconosciute a tutela delle vittime del nazifascismo, in particolare nei mesi drammatici dell’occupazione di Roma; dall’altro è stato accusato di troppi “silenzi” a fronte delle notizie drammatiche che arrivavano in Vaticano, già dal 1939, dai territori occupati da Hitler, a partire dalla Polonia. Nel libro per Laterza, La guerra del silenzio. Pio XII, il nazismo, gli ebrei (pagine 336, euro 25,00) Andrea Riccardi ricostruisce la storia e le ragioni di quei silenzi, avvalendosi di una ricca documentazione consultabile solo dal 2020, anni in cui l’Archivio Apostolico Vaticano ha reso accessibili agli studiosi i documenti del pontificato di papa Eugenio Pacelli. Archivio dal quale emerge, come sottolinea Riccardi, che «il problema dei “silenzi” non è solo una questione del mondo ebraico, ma riguarda tutti, anche i cattolici». In pagina proponiamo uno stralcio tratto dalle conclusioni.

Non era facile collocare nella propria coscienza gli orrori inimmaginabili che i nazisti stavano compiendo in Europa. Era più facile situarsi nella zona di penombra tra coscienza e ignoranza, specie quando c’erano i pericoli pressanti della guerra e si manifestavano esigenze primarie di sopravvivenza per sé e per il proprio gruppo. Bisognava lasciarsi andare all’esagerazione, perché se era “esagerato” era anche inimmaginabile. Eppure il male non ha limiti: talvolta va al di là di quelli imposti dalla nostra esperienza e dalla nostra conoscenza. Infatti la Shoah, per tanti aspetti, è anche un incredibile e tragico allargamento della conoscenza morale e storica. Si manifestava, in questo senso, anche la “fatica” di tanti, funzionari vaticani e non solo. Gli ambienti vaticani, scrive Renato Moro, non hanno «pienamente tenuto conto dell’unicità mostruosa dell’iniziativa hitleriana sul terreno della politica razziale». In tale sottovalutazione esercita un peso, in alcuni, l’eredità di diffidenze e luoghi comuni antigiudaici e antisemiti. [...] Pio XII ebbe coscienza di un suo dovere che andava al di là della Chiesa cattolica, anche se il suo ministero era rivolto principalmente a essa. Cercò, con il suo governo, di gestire la complessità di spinte contraddittorie e soprattutto di esigenze diverse. Da qui la politica dell’imparzialità tra i combattenti. Ma anche l’aiuto concreto e il richiamo ai principi. Per taluni le sue parole furono un “mormorio”; per altri ebbero un significato. Per lui, gli anni della guerra furono un dramma spirituale, in cui poté constatare la fragilità estrema dell’istituzione papale e la complessità del cattolicesimo. Di queste fragilità deve tener conto la ricostruzione storica. La guerra e quella mondiale in particolare. è un terreno impossibile per la Chiesa cattolica e il suo papa: il cozzo dei nazionalismi e dei totalitarismi non solo la ferisce dall’esterno, ma la lacera dall’interno nel corpo dei suoi fedeli. [...] Il “processo storico” a Pio XII è divenuto una grande questione di coscienza, in cui ogni generazione ha portato del suo: il bisogno di “profezia” degli anni Sessanta che fanno sentire lontano il “papa diplomatico”; il senso della giustizia di fronte alle tortuosità della diplomazia; il grido di un dolore tanto grande verso chi forse avrebbe potuto fare di più... La Chiesa durante la guerra sembrò a molti, dopo il Vaticano II, lontana da quell’ideale che il Concilio aveva proclamato. Non si dimentichi anche che le polemiche sul papa furono uno shock per la Chiesa, abituata a vedere Pio XII salutato come un salvatore da tanti esponenti dell’ebraismo, come mostrò il significativo cordoglio ebraico alla sua morte. [...] Non interessa condannare o assolvere. Il lavoro dello storico non è quello di un giudice e non si conclude con una sentenza. Altri pensino diversamente, ma quel che importa è che si continui a studiare la storia di quegli anni decisivi per capire cos’è l’Europa, cosa non deve diventare o come dev’essere. Perché, nell’abisso della seconda guerra mondiale e di Auschwitz, rinasce un umanesimo europeo, come volontà di dare una svolta alla storia del continente. La storia non è apologetica. La Chiesa degli anni della seconda guerra mondiale non è stata imbelle o rifugiata in una zona grigia d’indifferenza ma, a contatto con i dolori, è stata capace di reagire nei modi più differenti. È una Chiesa che, per alcuni anni, ha vissuto in società vinte dalla brutalità nazista, rappresentando uno spazio d’alterità nella continuazione della vita religiosa. Eu-genio Pacelli si è preso la sua responsabilità nei limiti del suo carattere, della sua formazione, della complessità della situazione (secondo la sua interpretazione), del suo servizio come papa alla Chiesa cattolica. Su Pio XII, sono illuminanti le parole che egli stesso scrive nel maggio 1956, due anni prima della morte, nel testamento. Considerare questo testo un atto formale o edificante è un errore. Ci mette invece a contatto con la sua coscienza sulla soglia della morte, che parte dalle parole penitenziali del Salmo 50: « Miserere mei, Deus, secundum (magnam) misericordiam tuam. Queste parole, che, conscio di esserne immeritevole ed impari, pronunciai nel momento in cui diedi tremando la mia accettazione alla elezione a Sommo Pontefice, con tanto maggior fondamento le ripeto ora in cui la consapevolezza delle deficienze, delle manchevolezze, delle colpe commesse durante un cosÌ lungo Pontificato e in un’epoca cosÌ grave ha reso più chiare alla mia mente la mia insufficienza e indegnità. Chiedo umilmente perdono a quanti ho potuto offendere, danneggiare, scandaliz-zare con le parole e con le opere. Prego coloro, cui spetta, di non occuparsi né preoccuparsi per erigere qualsiasi monumento alla mia memoria; basta che i miei poveri resti mortali siano deposti semplicemente in luogo sacro, tanto più gradito quanto più oscuro... Ciò premesso, nomino mia erede universale la Santa Sede Apostolica, da cui tanto ho avuto, come da Madre amatissima». Oggi, per quelle disobbedienze tipiche in un’istituzione fondata sull’obbedienza come la Chiesa, un monumento invece lo rappresenta in piedi, benedicente, magro, ascetico, inquieto, quasi proteso in avanti, scolpito da Francesco Messina. Fu inaugurato nel 1964 da Paolo VI nella basilica vaticana, mentre si teneva il Concilio, proprio di fronte alla statua di Pio XI, seduto su un trono e ben saldo. Entrambi i monumenti sono collocati nella cappella di San Pietro. Lì è stata posta poi la tomba di Giovanni Paolo II, nato in Polonia nel 1920 quando qui si svolgeva la missione di Ratti, e nominato vescovo da Pacelli nel 1958. Questa storia non è solo quella di Pio XII e del Vaticano. Studiare queste vicende ci mette a contatto con un’illimitata marea di dolori di ogni tipo e genere, a partire da quello così particolare della Shoah. Com’è infondata la frase che John le Carré attribuisce a Stalin: «Una morte è una tragedia; un milione di morti è statistica »! La tragedia della seconda guerra mondiale sono i milioni di morti e il tentativo di annullamento del popolo ebraico. Resta una realtà che interroga la Chiesa cattolica, anzi le Chiese cristiane e l’umanità europea: quella di sei milioni di ebrei uccisi. Certo ci sono i carnefici e i loro collaboratori che, guidati da un sistema e da un’ideologia folli, ne ebbero la responsabilità. Ma è una sconfitta dell’umanità nel suo complesso. È una sconfitta del cristianesimo. Ha ragione Elie Wiesel: «Gli assassini erano battezzati, per lo più, erano stati educati nel cristianesimo, alcuni di loro addirittura andavano in chiesa, alla messa, e certo si confessavano. Eppure uccidevano. È la prova che il cristianesimo non è stato in grado di erigere un muro che impedisse agli assassini di compiere il male. Ora, al contrario, si tratta della sconfitta del razionalismo, forse. È la sconfitta della politica, dell’impegno, la sconfitta di tutti i sistemi, della filosofia e dell’arte». Fare storia e riflettere sugli anni tra il 1939 e il 1945 come sconfitta di tutti non è inutile, anzi è necessario in questo nostro XXI secolo, perché è stata l’ultima guerra mondiale con le sue tragiche conseguenze. E dev’essere l’ultima! Oggi però la lontananza dagli avvenimenti e la scomparsa delle generazioni che hanno conosciuto il conflitto ci rendono meno avvertiti sui drammi di una nuova guerra.

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