martedì 23 maggio 2023
Da discorsi e carte emerge lo stretto nesso tra teologia e letteratura. Con la povertà come chiave per "I promessi sposi". E la lettura di san Francesco e De Foucauld tramite i classici e Bernanos
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Pubblichiamo una sintesi del saggio del filologo e critico letterario Carlo Ossola contenuto nel volume Il magistero di Giovanni Paolo I. Uno studio storico e teologico attraverso le carte d’archivio (Viella, pagine 180, euro 20,00), curato da Stefania Falasca e Flavia Tudini. Il libro, che propone saggi e approfondimenti sull’opera e sul pensiero di Albino Luciani, nasce dalla giornata di studi sul magistero di Giovanni Paolo I in base all’acquisizione delle fonti promossa dalla Fondazione vaticana Giovanni Paolo I in collaborazione col dipartimento di Teologia dogmatica della Gregoriana.

Il patriarca Albino Luciani entra in conclave il 25 agosto 1978, con una fitta agenda di impegni veneziani per il mese di settembre; dopo quattro scrutini, viene eletto papa il 26 e nel nome che sceglie, Giovanni Paolo I, intende suggerire il desiderio di continuità con il Magistero di Giovanni XXIII e di Paolo VI, nell’eredità del Concilio Vaticano II (sarà il suo primo «vogliamo» nel Radiomessaggio Urbi et Orbi del 27 agosto 1978). In esso egli si appella agli «Homines fratres totius mundi!» affinché trovi luminoso giorno l’aurora di speranza ch’egli intravede albeggiare: «Quasi quaedam spei aurora mundo illucescit». Questa speranza – descritta con metafora continuata – diventa epifania di quella pienezza di luce («ut mundo dies oriatur clarior et suavior») che è il Cristo «sol iustitiae» (da Malachia, 3, 20). La formula biblica ha una lunga tradizione patristica che culmina in Dante, tanto nelle Epistole (specie V, 1) che nella Commedia: in più punti infatti uno dei migliori esegeti antichi del poema, Benvenuto da Imola, richiama il concetto come fondante per Dante segnalando appunto – per Purg. XXXI,121-123 – che «est propriissima comparatio de sole ad Christum, qui est sol iustitiae».

Del resto, divenuto papa, Albino Luciani porrà Dante all’inizio stesso della propria catechesi, nell’Udienza generale del 20 settembre 1978, dedicata alla seconda «lampada di santificazione», la speranza. Il riferimento al «sol iustitiae» suggerisce una contiguità non episodica tra paradigmi teologici e paradigmi letterari nell’opera di Albino Luciani. Ne sono prova non soltanto la serie delle lettere immaginarie, indirizzate ai grandi delle Lettere universali, raccolte in Illustrissimi, bensì anche le citazioni che – da vescovo – egli rivolge alle proprie comunità. Se nel ministero veneto (vescovo di Vittorio Veneto, 1958; patriarca di Venezia, 1969) attingeva spesso agli autori di lingua veneta, nelle poche settimane in cui fu vescovo di Roma attinse a Trilussa (Udienza generale: la fede, del 13 settembre 1978); così come ai versi di Giuseppe Gioachino Belli.

Il richiamo alla letteratura è per altro un sorta di accessus più discorsivo e nell’ordine della parola quotidiana ai temi che gli sono più cari, innanzi tutti la povertà e l’umiltà. Tale, per Albino Luciani, è la chiave per leggere i Promessi Sposi: «“Storia di povera gente”. Povero l’ambiente principale: montagna, campagna, lago. Poveri i protagonisti». Potremmo allargare il ragionamento: la letteratura serve – in tutto il magistero episcopale – ad Albino Luciani come più vero sermo humilis o, se si vuole, comparatio compendiaria per paragoni sintetici arrivando all’uomo d’oggi. Chiamato da vescovo di Vittorio Veneto a predicare gli esercizi spirituali ai sacerdoti delle diocesi venete a Possagno del Grappa nel gennaio 1965, si trova a spiegare la «grazia attuale». Procede con quella che in retorica si chiamerebbe “definizione per comparazione”, ma che nel suo vocabolario è disarmante quotidianità: «Quando si tratta di amare una macchina, un’automobile nuova oppure un televisore, succede che l’apparecchio non ancora entrato qui, incomincia a piacermi e mi fa subito andare… Dio è bellissimo, desiderabilissimo, più di tutte le macchine e di tutti i televisori di questo mondo. [Ma] qui interviene un fatto misterioso. Anche dopo essere entrato in me, come pensiero, e ho capito che è bellissimo, desiderabilissimo, ciò non basta per farmi partire. È necessario che entri in me anche una carica speciale, una spinta sua, che si chiama grazia attuale». Questo registro, che manterrà sino alla fine, sino al breve pontificato (il suo motto era infatti Humilitas), era fondato su una scelta della nuda essenzialità della quale, sin dagli anni Quaranta, egli aveva tracciato i modelli: San Francesco, François de Sales, e Charles de Foucauld, sopra tutti. Santificarsi attraverso il «tragico quotidiano», come dirà nel giugno 1978, poco prima di essere eletto papa. (...)

Egli ha rappresentato la continuità di una linea di spiritualità veneta che lo stesso Albino Luciani faceva risalire (dicembre 1942) all’«uomo-programma» di una conciliazione di cristianità e umanesimo, cioè a Gasparo Contarini. Quando si leggono i pochi discorsi del suo pontificato, colpisce il continuo richiamo a un’idea di chiesa che risale ai Padri: «salutem dicimus cunctis membris populi Dei»: al popolo di Dio egli si rivolge, in primis, nella omelia d’inizio del ministero pontificio il 3 settembre 1978 e anche la funzione del papa, nel messaggio Urbi et orbi del 27 agosto 1978, è quella di colui «che presiede alla carità universale», operando sempre «per la reciproca conoscenza, da uomini a uomini». Proprio in un’agenda dell’estate 1970 troviamo – pubblicate ora da Stefania Falasca – delle note illuminanti sulla «Chiesa povera» nelle quali osserva: «La bandiera della povertà ecclesiale l’ha inalberata Cristo con tutti i veri riformatori (da san Francesco a Charles de Foucauld)». Non è dunque solo una coincidenza che ora, negli stessi mesi, e per opera di un nuovo Francesco ignaziano, Charles de Foucauld e Albino Luciani si trovino uniti a Roma nella celebrazione della loro santità.

La frequentazione dell’opera di Foucauld è successivamente confermata da un appunto, su un’agenda alla data del 25 marzo 1971 che si riferisce a Come loro di René Voillaume, titolo italiano dell’affresco che fece conoscere Charles de Foucauld al largo pubblico: Au cœur des masses. Le masse, intese come corpo vivo dell’umanità, masse umilmente votate al lavoro, sacrificate nelle oppressioni e nelle migrazioni, come già si era espresso Paolo VI nella giustamente celebre Populorum progressio: «Ma seppero [i missionari] anche coltivare le istituzioni locali e promuoverle. In parecchie regioni, essi sono stati i pionieri del progresso materiale come dello sviluppo culturale. Basti ricordare l’esempio del padre Carlo de Foucauld, che fu giudicato degno d’esse chiamato, per la sua carità, il “Fratello universale”. È Nostro dovere rendere omaggio a questi precursori troppo spesso ignorati, uomini sospinti dalla carità di Cristo». E naturalmente Albino Luciani ebbe subito a sottolineare proprio quel passo su Charles de Foucauld «Fratello universale» in una sua riflessione di poco successiva. È la stessa linea – da san Francesco a Charles de Foucauld – che ritroviamo oggi nella lettera enciclica di papa Francesco Fratelli tutti del 3 ottobre 2020, che appunto comincia con la citazione di san Francesco e termina con quella di Charles de Foucauld «Fratello universale».

In uno dei suoi testi più ispirati Albino Luciani (ancora una volta unendo spiritualità e letteratura) aveva associato il principio del «fratello universale» di Charles de Foucauld all’«uomo dai diecimila cuori» di Molière/ Shakespeare: «Se non diventiamo come de Foucauld “fratello universale”, o, come diceva Shakespeare, “uomo dai diecimila cuori”, ci sarà pochissima promozione umana». Associando poi il santo di Assisi a una grande figura letteraria del XX secolo, Georges Bernanos, con acuta e radicale sapienza Albino Luciani vedeva in san Francesco il modello di quello che sarà il proprio motto, humilitas: «San Francesco d’Assisi – scrive Bernanos – non ha sfidato l’iniquità (che pure era nella Chiesa), non ha tentato di fronteggiarla; si è gettato nella povertà…; invece di tentare di togliere alla Chiesa i beni mal acquisiti, l’ha colmata di tesori invisibili». Così, nel prendere il nome dei due papi del concilio, Giovanni Paolo I ne incarnava anche l’eredità umana, specialmente quella soave mansuetudine ch’egli stesso ricordava illuminare il volto e la vita di papa Roncalli: «Un patriarca mistico, dunque? Sì, ma di un misticismo umano, alla Francesco di Sales, il quale voleva la virtù non pesante agli altri ma amabile, sorridente; e si proponeva di fare nella vita né più né meno di ciò che fanno gli altri, difarlo però santamente, non distruggendo la natura umana ma solo correggendola ed elevandola con l’aiuto di Dio». Una generosa e provvidenziale continuità che ancora nutre il nostro quotidiano.

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