venerdì 22 gennaio 2021
L’archeologo Paolo Matthiae ricostruisce le molte sfaccettature delle maschere del potere, tra assoluto e individuo, nell’antico Oriente, smontando opinioni radicate e metodi critici standardizzati
Arte accadica, testa di re (particolare), periodo di Awan o di Shimashki, rame, XXII-XX secolo a.C. New York, Metropolitan Museum

Arte accadica, testa di re (particolare), periodo di Awan o di Shimashki, rame, XXII-XX secolo a.C. New York, Metropolitan Museum - Metropolitan Museum / CCby2.0

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C’è un problema di fondo, una vera e propria costante, nel modo in cui viene raccontata e spesso anche insegnata la storia dell’arte, ed è un retaggio di una impostazione progressiva, al fondo ancora di matrice hegeliana, e della quale sembra essere veramente faticoso liberarsi. La sua saldatura al tradizionalissimo primato della classicità – grecoromana e quindi italiana – prodotto dalla riflessione estetica nei secoli che vanno da al XV al XVIII e che, non solo a livello di vulgata, ha superato quasi indenne la demolizione operata dal Novecento, genera uno stratificato altalenarsi di decadenze e epoche d’oro (le 'rinascenze'). La pratica della storiografia è una costante revisione degli assunti e degli approcci critici, ma che i risultati di questa operazione trapassi nella più vasta opinione comune (attraverso in primis la scuola e i media) è fatto più complesso. Per la questione artistica, e in alcuni ambiti in particolare, i fardelli di derivazione ancora ottocentesca e primonovecentesca non sono esigui. Il processo della loro rimozione e, a loro volta, storicizzazione in un certo senso corre parallelo a quello degli studi postcoloniali.

Si può leggere così I volti del potere (Einaudi), ultimo lavoro di Paolo Matthiae, prezioso per il metodo prima ancora che per i risultati a cui attinge, dedicato “alle origini del ritratto nell’arte dell’Oriente antico”. Matthiae è professore emerito di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente alla Sapienza, nonché direttore della spedizione italiana ad Ebla, della quale è considerato lo scopritore, e della quale ha presieduto gli scavi dal 1963 al 2010, quando le ricerche in Siria dovettero essere sospese a causa della guerra. L’assunto di Matthiae è in sé semplice: verificare la valutazione «prevalsa a lungo nella comune percezione sia del pubblico sia degli specialisti» per la quale le opere d’arte realizzate nell’ambito delle grandi civiltà dell’Oriente antico, tra Egitto, Mesopotamia, Siria e Iran, presentano una sostanziale e omogenea «fissità nel tempo, se non assoluta certo dominante». Questo approccio, iniziato a sgretolarsi nella seconda parte del secolo scorso e che privilegiava «aspetti tipologici e iconografici rispetto ai valori stilistici », aveva portato da parte di critici britannici della seconda metà dell’Ottocento, a negare l’artisticità stessa delle opere egizie e mesopotamiche.

La storia (dell’arte, dell’architettura, della letteratura...) è uno strano cannocchiale dal punto di vista cronologico: le epoche più lontane si muovono monolitiche per blocchi di millenni e quindi di secoli. Avvicinandoci ai nostri tempi, o meglio a quelli che vedono la nascita della storiografia stessa, ecco che le trasformazioni si succedono con sempre maggiore frequenza, parcellizzandosi in una multitudine di sequenze lunghe pochi decenni o anni. È come se l’eccessiva distanza impedisca di cogliere le sfumature e l’eccessiva vicinanza la consistenza di tendenze più ampie.

In particolare per quanto riguarda le opere prodotte dalle civiltà più antiche «istintivamente vengono giudicate, e anche ammirate, in quanto si collocano esclusivamente nell’ambito del meraviglioso, che può avere certo un fascino soggiogante, ma restano di norma fuori dall’apprezzamento estetico per i valori formali che – questi sì – nel tempo si collocano naturalmente e nel tempo mutano ». In sostanza, l’arte classica – greca, romana, tardoantica – «per la nostra comune formazione ed educazione visiva a ogni livello» viene valutata anche nella sua dimensione storica, mentre i prodotti delle civiltà preclassiche «si collocano quasi in una preistoria strutturale, in secoli e millenni di un’età oscura, un periodo lunghissimo di dominante ombra che cela o comunque oscura ogni cambiamento».

C’è però un ulteriore problema, segnala Matthiae, ed è di stampo epistemologico. Il tentativo di recuperare la varietà e le specificità a lungo negata, avviato «da non molti decenni » è passato per «la strada obbligata dell’applicazione dei metodi della storia dell’arte». Il tentativo, necessario e fondamentale, ha però un vizio di fondo: gli strumenti critici adottati sono stati forgiati sopra i risultati dell’arte classica e dell’epoca moderna dell’Occidente europeo. «È ben noto che questi, applicati pur rigorosamente ad altre civiltà artistiche del pianeta » come quelle cinesi, indiane o precolombiane «risultano non solo particolarmente inefficaci, ma piuttosto decisamente inadeguati se non pienamente falsificatori». Il loro esercizio sul mondo orientale antico «è certo meno pericoloso (...) ma non è affatto privo di rischi».

busto del principe Ankhaf, da Giza, IV Dinastia, XXVII secolo a.C. Boston, Museum of Fine Arts

busto del principe Ankhaf, da Giza, IV Dinastia, XXVII secolo a.C. Boston, Museum of Fine Arts - WikiCommons / CCby2.5

Matthiae si incarica pertanto di affrontare l’arte di un vasto complesso di civiltà attraverso la prospettiva particolare ma rivelatoria del ritratto, un genere che di norma viene abbinato alla storia dell’arte occidentale e solo con «rarissimi, inconsistenti e accidentali precedenti nel mondo orientale antico d’Egitto e d’Asia. Questo giudizio non è soltanto inaccettabilmente sommario, ma soprattutto non è per nulla corrispondente alla realtà». Matthiae entra nel dettaglio di forme del ritratto, anche embrionali, estremamente variegate per tipologie, approcci stilistici, simbolici e gerarchici, in cui i vettori che determinano scelte e trasformazioni sono strettamente legati alla rappresentazione del potere, alle sfumature e alle oscillazioni rispetto a «definite visioni della natura – umana, divina o divinizzata – dei detentori del potere». Una tensione tra dimensione umana e assoluto, individualità e idealizzazione, dettaglio e sintesi, ma anche tra forme diverse delle politica, della città, dello stato, il cui tratto costante è costituito dalla fusione di religione e potere.

Ritratti nel senso del termine come definito nella tradizione che corre pressoché ininterrotta dalla Grecia classica e dalla Roma repubblicana fino all’Ottocento? «Certamente no – conclude Matthiae –. Opere d’arte altrettanto certamente sì, in cui l’ideologia sovrastante della regalità, i vincoli superabili della tradizione, le sollecitazioni della religione e della politica, l’impegno determinato delle committenze regie sono state poderose forze ispiratrici di capolavori unici che possono cominciare a essere apprezzati in tutto il loro valore nei nostri tempi segnati dal crescente riconoscimento della straordinaria, e inviolabile, ricchezza della diversità culturale».

Paolo Matthiae
I volti del potere
Alle origini del ritratto nell’arte dell’Oriente antico

Einaudi. Pagine 324. Euro 36,00

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