domenica 23 luglio 2017
Ad Assisi il regista e attore veneto ha messo in scena il suo “Ulisse tascabile”, testo quanto mai attuale: «In ogni barca di mendicanti senti arrivare lunga e potente l’onda di Odissea»
Marco Paolini durante un momento dello spettacolo “U. Piccola odissea tascabile”

Marco Paolini durante un momento dello spettacolo “U. Piccola odissea tascabile”

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«Ascolta a me, ascolta a me!», è un intercalare gergale e sgrammaticato molto usato da alcuni abitanti dei borghi umbri e ripetuto in modo ossessivo quando dialogano fra loro come se durante una conversazione serpeggiasse costante e subdolo il timore di non essere ascoltati veramente. Un cruccio, quindi, una paura, nemmeno tanto inconscia, che nessuno ascolti più davvero nessuno e che, nella civiltà dell’icona e della digitazione, trovare un interlocutore che non frema di smanettare il cellulare, di controllare gli aggiornamenti e le notifiche sui social e che sia capace di fare silenzio dentro di sé e di mettersi in una posizione di ascolto sia ormai cosa rara. Sempre in Umbria, nel cuore di questa regione che ha generato esempi eccelsi di spiritualità e mistico silenzio, precisamente nella cittadella di San Francesco, si sono vissuti nell’ambito dell’edizione zero del festival “UniversoAssisi” novanta minuti di profonda e autentica comunicazione grazie a un uomo che parlava e quattrocento persone che ascoltavano, veramente, dimentichi delle loro protesi tecnologiche. Lui, l’uomo parlante, durante quei novanta minuti non ha mai avvertito il bisogno di dire «ascolta a me!», perché conosce alla perfezione, il segreto e il fascino dell’oralità, strumento antichissimo, ma ancora potentissimo. E anche perché lui è una sorta di «abracadabra» vivente che «crea parlando» secondo l’etimologia aramaica della parola. È il re dei narratori, il capostipite dei moderni cantori, quello del Vajont, l’orazione civile che fece incetta di premi teatrali nel 1995-96 e divenne fenomeno televisivo eclatante nel 1998. A distanza di più di venti anni Marco Paolini non si meraviglia affatto dell’incanto che il racconto crea: «Non faccio fatica a sentire la potenza delle cose che trasformo in narrazione. Sono convinto che prima del “big bang” c’erano le parole ». E l’arte dell’affabulazione è per Paolini il grimaldello della comprensione: «Se non proviamo a narrare non capiamo. C’è da capire tutto, non solo il passato, ma il futuro, viviamo tante cose che non riusciamo più a descrivere. Richard Feynman, il Premio Nobel per la fisica del 1965, diceva: «Ciò che non riesco a rifare non lo posso capire. Parafrasando lui dico: quello che non riesco a spiegare con le parole non lo posso capire». Ebbene, possiamo affermare senz’ombra di dubbio che l’Odissea Paolini l’ha capita eccome. È all’epica omerica che si è ispirato infatti il suo teatro-canzone presentato nel bosco di San Francesco ad Assisi.


L’artista veneto ha raccontato e cantato, accompagnato da Lorenzo Monguzzi ex Mercanti di Liquore, le gesta e le peripezie di Ulisse. L’Odissea ha alle spalle millenni di storia tramandata, il suo U. Piccola odissea tascabile ha quindici anni. Quindi un testo non nuovo, scritto tre lustri fa, messo nel cassetto e periodicamente ripreso e aggiornato e che oggi, alla luce delle contemporanee e tragiche migrazioni, risuona tremendamente attuale e diventa paradigma di tutte le odissee dei profughi che si avventurano per mari e terre alla ricerca disperata di una nuova patria. «La gens di Ulisse sembra condannata a non avere futuro e terra. Io – confessa Paolini – non posso dimenticare che noi siamo la stirpe di Enea. È il vinto, lo sconfitto che fugge dalla guerra che ha distrutto la sua Troia che ha generato la nostra stirpe. In ogni barca di mendicanti senti arrivare lunga e potente l’onda di Odissea. Lo so, siamo in troppi, anche per la “limosina”, ma nemmeno la morte di Ulisse può fermare il flusso». D’altra parte lo stesso affabulatore afferma, con un pizzico di civetteria, di sentirsi più affine a «Hermes, dio dei vagabondi e dei truffatori, profumo di inganno» che ad Apollo divinità dei poeti. E la stessa storia di Ulisse «fu creata da un uomo cieco e mendìco su un altro uomo che si ritrova a mendicare in casa sua». Già dalle prime battute si intuisce immediatamente che questo «oratorio diviso in movimenti, rapsodie, ballate e frottole», pur restando fedele all’originale, è un viaggio nella nostra coscienza con un linguaggio che mescola sagacemente il verso sublime omerico con la parola ruspante e politicamente scorretta. Non a caso a fare da epigrafe alla narrazione la citazione del “cantore del tempo” Andrea Zanzotto a lui tanto caro: «La poesia è come una lettera che se ne va in giro per il mondo a mendicare e poi torna piena di cose». Ricca di contaminazioni è per l’appunto la narrazione di Paolini. Dal racconto con accento campano di Polifemo, di “Eolo il climatizzatore”, della dea afrocubana di nome Calipso, della moglie Penelope Cruz, dei Proci che si contendono il telecomando, è tutta una fusione fra alto e basso, antico e moderno, nobile e pop. Tante suggestioni, una sola certezza: l’Odissea suscita un’empatia ignota all’Iliade. «Nessuno riesce a sottrarsi al fascino di uno più sfigato di te», chiosa Paolini. E nessuno può negare al termine dei novanta minuti l’odierno bisogno estremo di memoria e oralità perché fatti non fummo «a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza».

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