mercoledì 21 gennaio 2015
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Cesare Pancotto è come Garibaldi, in Italia è stato dappertutto. Ha allenato 14 squadre, dalla Sicilia (Barcellona) al Friuli (Trieste e Udine), passando per la Sardegna (Sassari). È uno dei più esperti allenatori del basket nostrano, ha appena compiuto 60 anni e superato le mille panchine in Serie A. Da poco più di un anno è alla guida di Cremona ed è già entrato nella storia del club: la scorsa stagione ha vinto il suo personale scudetto salvando la squadra da una retrocessione che sembrava inevitabile, e quest’anno ha conquistato la qualificazione alla Final Eight di Coppa Italia, una primizia assoluta per il club della “Bassa” con un budget lontano anni luce dalle altre società. In tre decenni si è ritagliato il ruolo dell’uomo del miracolo, quello che arriva e salva la situazione sull’orlo del tracollo. In passato aveva anche l’etichetta di tecnico delle promozioni. È stato lui, 20 anni fa, a portare Siena in A1. Agli inizi della carriera ha allenato anche Rudy Hackett, il padre di Daniel, più vecchio di lui. In un periodo in cui vanno di moda i cuochi in tv, si può dire che lei è abituato a fare il proverbiale pranzo di nozze con i fichi secchi?«Lo prendo come un complimento. Nella vita di un allenatore l’importante è portare al massimo la squadra che ti danno. Se un giorno devi lottare per non retrocedere e riesci a fare di più, hai fatto qualcosa di grande».Merito della tanta gavetta?«Io appartengo alla categoria degli allenatori che dovevano “dimostrare” e a un periodo in cui per allenare in Serie A bisognava vincere i campionati. Questo ha formato l’uomo e il tecnico. Così, per ottenere il massimo dei risultati cerco sempre di avere un impatto per far crescere non solo la squadra ma tutto l’ambiente». In più di 30 anni ha fatto tanta provincia, solo un’apparizione fugace a Roma e a Bologna...«Sono uno che abbatte l’idea degli alibi e della sfortuna. Di soddisfazioni ne ho avute e ne sto avendo tante. Della mia carriera mi piace non solo i risultati ottenuti, ma anche il percorso per ottenerli». Però non le secca che i grandi club non l’abbiano mai cercata? «Io rigiro la frittata. C’è un tempo per tutto. Evidentemente dovrò aspettare ancora. Intanto, seguito a fare il mio lavoro, a cercare i risultati portando avanti la mia identità di allenatore. Credo che questo possa servire in un futuro a darmi quella grande opportunità». Nel suo personale Giro d’Italia, c’è un luogo dove vorrebbe porre il traguardo? «Non ho mai avuto l’idea dell’isola che non c’è. Ho sempre pensato che dove ero dovesse diventare l’ultimo posto dove allenavo: avrebbe voluto dire che stavo ottenendo risultati, stavo crescendo insieme alla società». Fa il diplomatico... «No, è la realtà. Quando sono diventato allenatore venendo dal “paesello”, da Porto San Giorgio dove torno sempre, avevo una grande ambizione ed è rimasta inalterata. L’idea di puntare al massimo resta. Una sola cosa è cambiata: si è accorciato il tempo per ottenerlo».Qual è la sua filosofia di pallacanestro?«Parte dall’uomo. Bisogna motivarlo, metterlo nelle migliori condizioni all’interno di un sistema di gioco dove l’organizzazione deve servire per sviluppare il talento individuale». E come reagiscono i giocatori?«Il basket è un gioco di squadra, questo non è solo un percorso individuale ma deve diventare del gruppo: quello che ho detto per l’individuo vale per il collettivo». Cremona viaggia con una media vittorie incredibile, superiore al 50%. «C’è chiarezza negli obiettivi: non retrocedere. Poi, idee e lavoro per costruire la squadra. E coraggio nelle scelte. Questi tre valori, insieme alla solidità mentale di Cremona, città abituata a lavorare, e alla spinta della famiglia Vanoli (proprietaria del club, ndr), ci ha portato a ottenere risultati insperati, ma meritati». Ha battuto Cantù, Varese, Bologna...«La soddisfazione maggiore è aver visto il pubblico aumentare di 4-500 unità, vederlo identificarsi sempre più con questa squadra che sta diventando l’orgoglio della città. Vedere gente con le lacrime agli occhi, emozionata, credo sia questa la soddisfazione più grande». Lei fa giocare molti italiani…«Siamo la seconda squadra nella classifica per l’utilizzo degli italiani. Abbiamo fatto una scelta di fondo per dare identità alla squadra». Quindi non è vero che non si può fare a meno degli stranieri.«Prima devi avere fiducia in quello che fai, devi credere nelle persone che scegli, devi lavorarci. E oggi siamo gratificati dall’aver creduto in questi ragazzi, ci hanno dato punti e la certezza che dando fiducia si possono ottenere dei buoni risultati».Così sfatiamo anche il mito che gli italiani non vengono utilizzati perché costano troppo?«Come sempre conta l’identità della società. La Vanoli è attenta a tutto e cerca di mettere nelle migliori condizioni chi deve lavorare: questo diventa un plus valore. Al quale bisogna aggiungere che qui tutti giocano e possono mettersi in mostra. Offriamo una vetrina, l’opportunità di mostrare il proprio valore. Abbiamo preso giocatori retrocessi o che venivano da serie minori: abbiamo dato loro fiducia e ci stanno ripagando». In Serie A si sono messi in mostra molti giovani. Un’abbondanza utile per la Nazionale.«Questo è un campionato che può aiutare il ct. Tanti giocatori stanno dimostrando un valore che può essere proiettato sul basket europeo».Come sono cambiati gli atleti da 30 anni a questa parte?«C’è stato un cambiamento epocale, basta pensare alla comunicazione. Prima per telefonare ci si fermava alla cabina con il gettone. Il nostro lavoro era giudicato solo dai giornali, mentre oggi lo è ogni secondo sui vari social. Ma dietro all’atleta c’è sempre un uomo, un ragazzo che cerca nello sport una sua identità. E se ti focalizzi sull’uomo sei capace di gestire questi cambiamenti». Ma un tecnico anziano non fa fatica a relazionarsi con i giovani? «Non si può separare l’atleta dall’uomo, bisogna capirlo e motivarlo. Se pensassi alla mia generazione farei un errore. Noi dobbiamo fare un passo verso questa generazione, quindi anche prendere confidenza con gli strumenti che utilizzano, come i social network».È cambiato molto anche il contesto sociale… «Noi siamo figli di una civiltà contadina, oggi è impensabile chiedere gli stessi sacrifici che chiedevano a noi e allo stesso modo: questi ragazzi non lo capirebbero. Quello che fanno è rapportato a questo loro tempo e siamo noi a doverci muovere. Non possiamo limitarci a dire “questo non è il mio basket”. Ma dobbiamo dire “facciamo in modo che questo sia un basket migliore”». Lei ha iniziato ad allenare giovanissimo...«A 26 anni, con la Cida Porto San Giorgio. E a 29 allenavo già in Serie A».Come ha fatto a debuttare così giovane?«Giocavo ed ero studente universitario. Dovevo spostarmi per ragioni di studio ma la mia società non me lo permetteva, così ho approfittato di un piccolo infortunio per tornare a casa e iniziare una nuova avventura». E con l’Università come è finita?«Sono a un esame dalla laurea in architettura».Un esame che non darà mai?«Lo sostengo ogni giorno quando vado a fare gli allenamenti. Ogni giorno è un esame. Ogni partita è un esame».I mali del basket italiano?«Il primo è di piangersi addosso. Il secondo di aver smesso di avere delle idee. Il terzo la scarsa capacità di aggredire i cambiamenti. E i cambiamenti oggi sono rimpolpare i settori giovanili, pensare a strutture multifunzionali e creare eventi per attrarre il pubblico».
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