venerdì 31 marzo 2023
L'ex portierone di Samp, Inter e Bologna, vicecampione del mondo con la Nazionale a Usa '94, si racconta anche attraverso un'autobiografia molto intensa appena pubblicata, dal titolo "Volare libero"
Gianluca Pagliuca e il suo erede in Nazionale Gigi Buffon

Gianluca Pagliuca e il suo erede in Nazionale Gigi Buffon - Foto Maurizio Borsari

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L’ex portierone di Samp, Inter e Bologna vicecampione del mondo con la Nazionale a Usa ‘94 si racconta in una toccante biografia, “Volare libero” «Respiro, sto camminando. Mi fermo tutto d’un tratto . Mi volto, mi guardo indietro, osservando ciò che è stato. Ho fatto un bel percorso, ne sono consapevole… ». È il bilancio di una vita, tra e fuori dai pali, quello del portierone azzurro Gianluca Pagliuca. Parole d’amore rivolte al calcio e alla vita, “scritte a macchina” assieme a Federico Calabrese nell’autobiografia Volare libero (per le ottime edizioni di Roberto Mugavero: Minerva. Pagine 254. Euro 20.00), da questo eterno ragazzone bolognese, classe 1966. Uno che guantoni alle mani ha parato tutto, a volte anche l’impossibile, arrivando a sfiorare il tetto del Mondo, a Usa ’94 (Italia-Brasile finale di Pasadena persa ai rigori) e anche quello d’Europa, con la Samp scudettata (finale di Coppa dei Campioni 1992, sfumata contro il Barcellona per la punizione bomba di Koeman). «Ma nel corso di vent’anni esatti di professionismo (debutto nel Bologna in C nel 1987, chiusura all’Ascoli nel 2007) due sconfitte del genere stanno nel conto. Con il tempo le apprezzi anche, perché comunque sei arrivato fino in fondo a competizioni di massimo prestigio e quindi anche l’argento mondiale e europeo te lo metti al petto come le altre medaglie da 1° posto. Certo, se potessi tornare indietro quelle due finali le rigiocherei altre dieci volte e magari le vinco pure tutte quante, così non ho più rimpianti… ». Sorride scanzonato Pagliuca mentre lascia il campo d’allenamento di Casteldebole. Ha ripreso, da consulente, proprio da dove è partita la sua straordinaria avventura, il settore giovanile del Bologna. Quello in cui è cresciuto anche il suo unico figlio, Mattia Pagliuca, attaccante millennials (2002) in prestito dal Bologna all’Imolese, serie C. «Purtroppo ora Mattia è fermo, si è rotto il crociato… Può sfondare? Il compianto Sinisa Mihajlovic lo fece debuttare in A (nel 2020, Bologna-Roma 1-5) e questo mi dice che tecnicamente è bravo, se poi acquisisse un decimo di quella grinta agonistica che possedevo io alla sua età, allora sì, credo che può fare anche lui il suo bel percorso ». Il cammino di Pagliuca senior è cominciato ai bordi della periferia bolognese, a Ceretolo a due passi dal Palazzetto del basket di Casalecchio di Reno. Interno di famiglia normale, senza agi, ma con i giusti valori trasmessi al piccolo Gianluca. Chierichetto alla domenica alla Messa di don Luigi, le serate con gli amici al Bar Augustus e l’affetto di genitori la cui separazione è stato il primo gol a freddo, difficile da incassare anche per un futuro portiere della Nazionale. «Mio padre, Pier Luigi, lavorava da camionista tutta la settimana e al sabato prendeva la fisarmonica e andava a suonare il liscio nelle balere. Portava anche me, ma erano serate in cui mi annoiavo. Meglio il rock o la scuola di ballo che ho frequentato… Papà quando ero un bambino è stato molto severo con me, ma mai un gesto cattivo… Mia mamma Maria Rosa era una persona, unica, una donna speciale: ha fatto mille lavori per non farmi mancare nulla e quando si sono separati è stato un colpo per me, ma poi ho visto che aveva riacquistato una sua serenità e questo mi ha aiutato a vivere tranquillamente la mia giovinezza, concentrata essenzialmente sullo sport e il divertimento. Quando mia madre è mancata cinque anni fa ha lasciato un grande vuoto nella mia vita... Lei è stata la prima a credere che il mio sogno di diventare un portiere di Serie A si sarebbe realizzato».

Il sogno divenne realtà con il passaggio alla Samp, estate 1984.

La Samp divenne la mia seconda famiglia. Loro credevano nelle mie qualità, io sapevo che con la loro fiducia potevo impormi ad alti livelli. Me lo diceva il fisico (1,90), la voglia di migliorarmi costantemente. Andavo agli allenamenti con la gioia di un bambino, in campo sentivo l’adrenalina a mille. Ero così protetto e sicuro in quell’ambiente doriano che d’estate non vedevo l’ora che iniziasse il ritiro precampionato per ritrovarmi con i miei compagni.

Era la Samp dei “gemelli del gol” Roberto Mancini e Gianluca Vialli…

Roberto e Luca, due ragazzi fantastici, come del resto tutto quel gruppo in cui c’era un mix perfetto di giovani e veterani. Mancini andò via dal Bologna proprio l’anno che arrivai io in rossoblù, l’82. Con il Mancio ci univa l’amicizia in comune con il custode di Casteldebole, il mago Baiocchi. Vialli erano già tre anni che stava alla Samp quando mi presero. Faccio fatica a pensare che Luca non sia più qui, che non posso più sentire la sua voce al telefono o incontrarlo ai nostri raduni di ex doriani… Per tutti noi di quella Samp dello scudetto con la perdita di Luca è come se avessimo perso un fratello.

La forza di quella Samp era la “triade carismatica”: i beati paoli, Paolo Mantovani e Paolo Borea e mister Vujadin Boskov, l’uomo di «rigore è, quando arbitro fischia».

Il presidente Mantovani è stato il più grande signore incontrato nel calcio. Gli bastò vedermi una volta che chiese immediatamente al suo ds Paolo Borea di acquistarmi. Con Borea firmai il contratto sulla spiaggia di Milano Marittima e mi ricordo che mi squadrò da capo a piedi e mi disse: «Pagliuca mi raccomando, veda di dimagrire prima del campionato» – sorride – . Boskov è una leggenda, con tutti gli aneddoti che conservo nella memoria potrei scrivere un secondo libro. La formazione la facevano Vialli e Mancini? Ma quando mai, decideva sempre tutto lui. Il mister al massimo ascoltava i pareri di ognuno di noi, era particolarmente attento al pensiero dei più anziani, come Cerezo, Dossena… e spesso si accaniva con le critiche rivolte sempre a noi giovani, tipo il sottoscritto, il mio grande amico Lanna o Lombardo… Ma quella era una strategia di Boskov per lanciare dei messaggi precisi a Mancini e Vialli e a tutta la squadra perché fosse sempre più unita e responsabilizzata.

Nel suo libro Volare libero racconta di scontri forti agli inizi con lo “zar” Pietro Vierchowod.

Tutte cose che cominciavano e finivano in campo. Dopo lo screzio con la Lazio, il giorno dopo andammo a mangiare assieme al ristorante. Oggi con Pietro siamo più amici di quando g iocavamo e questo spirito leggero e fraterno della Samp posso assicurare che non si interromperà mai.

È una bella pagina da calcio di poesia. Oggi sembra più grigio e peggiore rispetto a quella mitica Serie A degli anni ’80-’90. Era tutto più bello, ma forse perché tutti noi eravamo giovani … - sorride - . Di sicuro era un calcio più umano, a cominciare dal rapporto con i tifosi e la città in cui giocavi. C’era un attaccamento vero alla maglia. Io quando sono passato all’Inter non volevo andarci, sono stato costretto...

Era l’estate del ’94, quella dei Mondiali americani quando passò all’Inter, una svolta importante nella sua carriera.

Avevo 28 anni, la maturità e la forza per mangiarmi il mondo. Ci sono arrivato a un passo a Pasadena…. Poi con l’Inter, come in tutte le squadre in cui ho giocato ho sempre preso parte a un ciclo vincente: scudetto e Coppa delle Coppe alla Samp, la Uefa in nerazzurro. Credo di aver lasciato un segno ovunque, e questo me lo dice l’affetto e il rispetto che mi sono conquistato nel tempo con i tifosi che conservano un ottimo ricordo del sottoscritto.

Non può dire lo stesso di Marcello Lippi, uno che il Mondiale lo ha vinto da ct, nel 2006, ai rigori contro la Francia.

Il l Mondiale lo avrebbe meritato di vincere anche Arrigo Sacchi nel ’94 con noi, perché credo che sia stato un allenatore rivoluzionario. Lippi quando arrivò all’Inter sapevo già che il mio destino era segnato e infatti ero il primo della lista alla voce cessioni. C’era un’antipatia reciproca che è rimasta, ma del resto è riuscito a rendersi antipatico anche a uno come Roberto Baggio che prima di essere un campione con la “C” maiuscola è il ragazzo più umile e disponibile che conosco. Lippi non poteva aver dimenticato quello che avevo detto e fatto dopo Juventus-Inter…

26 aprile 1998, la partita dello “scudetto strappato” dalla maglia dell’Inter di Gigi Simoni, per la svista clamorosa dell’arbitro Ceccherini di Livorno, il quale si è risentito per le sue ultime dichiarazioni sull’episodio del rigore negato al brasiliano Ronaldo.

Quello scudetto, in primis sarebbe stato il giusto tributo alla carriera di un uomo puro e leale come Gigi Simoni. Quanto a Ceccarini che cosa posso ribattere? Che ha perso l’ennesima occasione per tacere, il silenzio a volte è davvero d’oro. Sere fa ho visto il documentario sul gol annullato al romanista Turone (Juve-Roma del 1981)… beh assieme al nostro rigore negato a Ronaldo, per il placcaggio di Iuliano in piena area di rigore, sono due episodi che vanno archiviati come i più grossi scandali arbitrali, acclarati, del secolo scorso… Ceccarini si è permesso di dire «che tanto noi lo scudetto quell’anno lo avevamo perso non vincendo le partite in casa». Ma questi sono commenti che non spettano a un arbitro, ma semmai a un tecnico o al limite a un tifoso… Chiudiamola una volta per tutte, certo un esame di coscienza diverso a distanza di tanti anni me l’aspettavo un po’ da tutti, juventini compresi.

Alla Juve hanno continuato a vincere i suoi due eredi in Nazionale, Angelo Peruzzi e Gigi Buffon.

Due grandi portieri. Gigi ha superato ogni record in azzurro, però io posso vantare due primati nei suoi confronti: con me titolare Buffon ha fatto la panchina alle Olimpiadi di Atlanta ’96 e poi ai Mondiali di Francia ’98. E questo me lo ricorda ogni volta che ci incontriamo.

In Nazionale Mancini ha portato nel suo staff tecnico mezza Samp, manca solo il preparatore dei portieri Pagliuca.

Ma ci sono già due ex Samp anche in quel ruolo: Giulio Nuciari, che era il mio vice alla Samp e Massimo Battara che è il figlio del mio maestro, Pietro. Certo io a lavorare con gli amici sono sempre disponibile, però lo staff attuale mi pare ottimo e la nostra scuola di portieri continua ad essere di primo livello. Tra Gigio Donnarumma e Alex Meret chi scelgo come titolare azzurro? Gigio, il quale forse ha commesso un solo vero errore fino ad oggi: lasciare il Milan. Anche se capisco che la tentazione di andare al Psg per giocare con dei mostri come Mbappè, Neymar e Messi è stata più forte di ogni altro ragionamento, soldi compresi.

Ultimi spiccioli di amarcord. Chi è stata la “bestia nera” di Pagliuca?

Potrei dire Maradona che con Ronaldo il Fenomeno e Messi ritengo siano i tre più grandi giocatori di sempre. Diego faceva paura solo a vederlo già a venti metri dalla porta, perché qualcosa prima o poi si inventava, ma la mia vera bestia nera è stato un altro argentino, Gabriel Batistuta. Mi pare che nei nostri scontri diretti mi abbia segnato 12 gol. Praticamente - sorride - si è fatto una stagione da bomber in doppia cifra solo con me. Però posso anche vantare di essere stato la bestia nera dal dischetto di Totti, Del Piero e Roby Baggio ai quali ho parato i rigori.

Cosa cambierebbe del calcio “meno libero” di oggi?

Il Var, perché non mi piace l’utilizzo che se ne fa. Ha permesso ai simulatori di approfittarsi ancora di più: al minimo contatto in area sceneggiano e la tecnologia ci casca o vuole cascarci, più degli arbitri. Andrebbe rivisto l’uso dello strumento, io lo adotterei solo per situazioni estreme e clamorose… Tipo? Beh quel rigore di Ronaldo in Juve- Inter, anche se non è detto poi che dalla stanza del Var poi decidono in maniera del tutto imparziale…

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