venerdì 17 gennaio 2020
Un saggio dell’antropologo Salsa smonta alcuni luoghi comuni su natura e ambiente. Qui la custodia del Creato non coincide con l’ideologia di una natura incontaminata in cui l'uomo è un estraneo
Il villaggio di Medergen, presso Arosa nel Cantone dei Grigioni

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Un piccolo libro dell’antropologo Salsa smonta alcuni luoghi comuni su natura e ambiente: «Le nostre montagne sono state plasmate nei secoli e questo fa la loro bellezza» Nel classico binomio natura/ cultura, il paesaggio sta con la seconda. Tanto che è una forzatura, se non proprio una vera contraddizione in termini, parlare di “paesaggio naturale”. Come ricorda Annibale Salsa nel suo agile volumetto I paesaggi delle Alpi. Un viaggio nelle terre alte tra filosofia, natura e storia (Donzelli, pagine 158, euro 18) «il paesaggio è sempre culturale. L’etimo del termine è una derivazione di “paese” sempre riconducibile al significato di villaggio nel senso di “fare comunità”»; per questo, usare oggi l’espressione “paesaggi naturali”, con riferimento ai contesti antropizzati in cui viviamo, significa compiere un’ingenuità cognitiva». Così come il “territorio” è altra cosa rispetto al “terreno”, la custodia del Creato non coincide affatto con certo ambientalismo ideologico, che teorizza una natura incontaminata nella quale, in fin dei conti, l’uomo è un estraneo, se non addirittura il cancro del pianeta. Tanto da arrivare a salutare con favore quella boscaglia che, a causa dello spopolamento delle aree rurali, prende il posto di antichi campi e pascoli: col risultato di lasciare il terreno indifeso di fronte agli eventi naturali, come troppi esempi anche in Italia ci ricordano.

Laboratorio ideale per osservare quanto il paesaggio sia debitore alla mano dell’uomo sono per Salsa, antropologo e già presidente generale del Club alpino italiano, le nostre Alpi, dove il passaggio dalla natura alla cultura ha impegnato nel silenzio generazioni e generazioni di montanari. Ciò che per i Romani non era altro che orrido e selvaggio, nel corso dei secoli è stato addomesticato e armonicamente plasmato; un processo quindi, ben lontano da ogni oleografica immagine di immobilità arcaica e sognante. Fu soprattutto nel Basso Medioevo che la paziente opera dei dissodatori, mossa dall’aumento della popolazione, da un periodo di favore climatico ma anche dall’afflato spirituale che cercava l’allontanamento dalle “tentazioni” del mondo delle città, plasmò la natura aspra e selvaggia punteggiando le Alpi di villaggi, pascoli, campi, strade. Identità e tradizione non sono immobili crisalidi, ma elementi storicamente determinati, che si formano nel corso del tempo. Lo stesso editore del saggio di Salsa, Donzelli, negli anni scorsi ha pubblicato il fondamentale studio di Antonio De Rossi La costruzione delle Alpi (2 voll., 2014-2016), che ben mostrava quanto l’immagine delle Alpi e dei suoi abitanti pittoresca e folcloristica, fatta di pascoli arcadici, costumi colorati e linde casette di legno, si sia costruita soprattutto a partire dall’epoca romantica. Un’immagine che esiste, certo, ma che non è affatto immota: «La costruzione del paesaggio – nota Salsa – assume i caratteri di un percorso culturale che si traduce nella “costruzioni di universi di riconoscimento”».

L’uomo al centro del quadro, non ai suoi margini. È anche per questo che è stato tra i monti, tra le comunità di valligiani che il concetto di bene co- mune ha avuto la sua affermazione più armonica e concreta, come pratica di «equilibrata e autonoma gestione delle risorse alpine». In molte località della Svizzera sono ancora oggi ben distinti il comune politico, affine all’istituzione amministrativa italiana, e il comune patriziale, l’unione della famiglie originarie del luogo che gestiscono collettivamente i beni comuni. In tutti gli altri Stati che oggi si dividono l’arco alpino la gestione burocratica e centralizzata del potere sul territorio ha sostanzialmente escluso questo diverso approccio, che pure si era affermato storicamente su entrambi i versanti delle Alpi. Parlando delle Regole e delle Vicinie che tradizionalmente gestivano i beni collettivi in area alpina, «Carlo Cattaneo – ricorda Salsa – ha scritto che rappresentano “un altro modo di possedere”. Esse non sono in contrasto con la visione privatistica del possesso, ma fanno riferimento all’uso collettivo del bene». Assumendo la lezione della storia per guardare al presente e al futuro, il legare la custodia del Creato al concetto di bene comune può indicare una via e dare linfa vitale a progetti di sostenibilità che sappiano fare la necessaria distinzione tra una natura “umana” e una natura regredita e inselvatichita. Definire in modo corretto, sia storicamente sia concettualmente, il paesaggio alpino, e in generale il paesaggio dell’uomo, serve a progettare su basi concrete uno sviluppo armonico e sostenibile, non solo dal punto di vista territoriale e socio-economico, ma anche dal punto di vista interiore. Facendo sì che i luoghi non siano non-luoghi dove l’individuo sparisce, bensì spazi vivi portatori di significato, nei quali l’individuo si senta a casa e parte di una rete sociale: dove possa essere, pienamente, persona.

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