giovedì 19 aprile 2018
Una riflessione del sacerdote e cappellano del carcere di Padova: «Ho provato a smontare il Padre nostro. Ho scorto parole di una grammatica feriale: volontà, pane, debiti, tentazione, male»
Don Marco Pozza

Don Marco Pozza

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Pubblichiamo un'anticipazione del nuovo libro di don Marco Pozza Il contrario di mio. Sfumature randagie sul Padre nostro (San Paolo), in libreria dal 20 aprile. Sul Padre Nostro don Pozza ha relizzato un programma per Tv2000 in dialogo con papa Francesco sui versetti della preghiera.

In materia di fede, sopravvivo per informazioni-seconde. Faccia a faccia, Dio non l’ho mai visto: quel poco che conosco di Lui, mi è giunto per parte di madre, di padre. La mia fede è somma di risposte senza chiamata: io non Lo chiamo, Lui mi procura indigestione di risposte. È poca roba: briciole, stracci, scampoli di futuro. È quel poco che mi basta per credergli. Appartenergli.

Credo, dunque: non per averlo veduto. Credo perché percepisco la forza d’urto d’essere stato visto: manco ricordo dove, però è certo che è accaduto. L’ha fatto accadere Lui. Assieme a Natanaele, spartisco il destino d’essermi accorto tardi che Lui già si era accorto di me: «Come mi conosci? [...] Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico» (Gv 1,48).

Occhio di padre, sguardo-custodia. Il Padre nostro ha il volto di mia nonna. Dev’essere stato in cucina, tutt’al più mentre sciacquava i panni nelle acque del torrente Astico. Terza ipotesi: seduti, entrambi, sui banchi della nostra chiesa di Calvene, sotto il Crocifisso, appena usciti dall’asilo.

All’anagrafe avevo quattro anni, o giù di lì: mi insegnò a mettere in fila indiana quelle sette frasi che, tempo al tempo, sarebbero diventate sintesi di tutto quello che avrei potuto osare chiedere a Dio. Dopo il Pater, nessun’altra orazione è più sorta su labbra d’uomo che non fosse già contenuta in questa: la più fanciulla, quella primordiale, preghiera casa e chiesa. Il Padre, poi anche la Madre: l’Ave Maria.

A casa non ci furono mai conflitti di interesse: prima Lui o prima la Madre, era chiaro che Dio aveva un diritto di prelazione nell’anima. Fu la nonna a decidere, a nome di noi bambini, le giuste posizioni: prima Dio, poi Maria. A Dio, attraverso Maria: che lei ci portava a pregare sul Monte Berico, la cima mariana di chi nasce nel vicentino. Ora pro nobis, Santa Dei genitrix.

Dio mi era Padre. Per anni volli capire il perché: senza un perché era difficile per me amarlo, a occhi chiusi. M’impantanai. Così, un giorno, rovesciai le carte: provai ad amarlo, per vedere se era più facile poi capirlo. M’accorsi dopo, senza rendermi conto, che il parlare di Dio mi stava seducendo. Non capire-per-amare, ma amare-percapire. La volontà di Dio, oltretutto. Quella che pregavamo così: «Sia fatta la tua volontà».

Anni dopo, lessi con stupore un’espressione dell’Abbé Pierre: «Solo una persona che ha perso la testa può dire cose simili. È aprire le porte a un vento che scompiglia. Offrire un pranzo al Dio affamato». Il mio Dio era esattamente così: scapigliato, affamato, spalancato. Pareva insulto al buon senso. A casa mi diedero ragione: «È insulto al buon senso, non hai torto». Poi chiusero i discorsi: «Nessuno, però, ti obbliga a seguire Cristo».

Parole sode: a me sufficienti per andargli dietro, nella sequela. Ammetto di frequentare Dio e i suoi misteri sin da bambino: eredito dal mio casato l’aver scoperto sguardi all’insù, oltre a quelli all’ingiù. “Ereditare” è verbo di ricevimento: da altri, verso di me. È anche un verbo impegnato: l’eredità va riconquistata per diventare sangue nostro. Al contrario, si vivrà da separati sotto il medesimo tetto.

Col Padre nostro, per troppa frequentazione, c’erano svariati conti in sospeso. È tipico dell’ineffabile: dopo averlo frequentato infinite volte, o lo si ama focosamente o ci si annoia al solo pensiero di doverlo ancora incrociare, professare, cantare. Qualunque sia la forma con la quale s’annuncia: fatti di carne, di insulti, di fede, estasi o caos. Nulla cambia: «Un arcobaleno che dura un quarto d’ora non lo si guarda più» ( W. Goethe).

Chi, pregando il Padre nostro, non ha mai avvertito nel cuore l’abitudine alla sua recitazione? Recitare è materia d’emulazione, non è ancora pregare: è lasciarsi imbottigliare dentro una trama. Pregare, invece, è lasciarsi rapire da Dio, per i suoi scopi: «Sia fatta la tua volontà». A occhi chiusi, quasi senza pensarci. A pensarci è da impazzire: volontà di Dio è espressione che sotterra. Altro che passività cristiana: non ciò che l’uomo dovrà fare per Dio. Ciò che Dio vorrà fare per me, suo figlio. Abituarsi alla bellezza, tra tutte le bestemmie, è la capoclasse.

Mi piace assai il verbo “smontare”: è verbo d’officina, di riparazione, di manutenzione. È verbo che eredito dal mestiere di papà. Ho provato a smontare il Padre nostro. Ho scorto parole di una grammatica feriale: “Dov’è tuo papà? Che bel nome porti! Il tizio ha messo in piedi un regno. Ci vuole tanta buona volontà. Sei andato a prendere il pane? Siamo pieni di debiti. Vuoi farmi cadere in tentazione? Perché mi vuoi così male?” Ho fatto addizione di umano: padre, nome, regno, volontà. Più pane, debiti, tentazione, male.

Mi sono scoperto nel Padre nostro: il festival della ferialità, delle necessità più urgenti, l’essenziale che rimane dopo aver grattato via la parte superflua. Smontandolo, scompariva l’astratto, appariva il concreto: Dio-qui, feriale, festivo. La cui valenza – “Perché pregarlo?” – era la sola possibile: ridare gusto alla ferialità, risvegliando l’umano della preghiera. L’unica che mi dica di chi sono figlio, di cosa io necessiti, qual è la meta del mio vagare: «Non è possibile recitarlo una sola volta, concentrando su ogni parola la pienezza dell’attenzione, senza che un mutamento, forse infinitesimale ma reale, si produca nell’anima» (Simone Weil).

Snocciolando il Pater, percepisco la presenza di una mancanza: “Mi manchi, Dio!” Il passaggio a «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1) è breve: le verità più evidenti sono le più ostiche da svelare. È il segreto dell’allegrezza di Cristo: la sua arditezza è nascondere il fondamentale nell’apparente banale. Poi, a domanda, capita che ogni tanto Dio risponda. In poesia, mai in prosa: «Pater noster [...] Amen».

Dialogo intimo, in parte autobiografico, sulla preghiera insegnataci da Gesù: «Pregare non è recitare ma lasciarsi rapire: “Sia fatta la tua volontà”».

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