venerdì 19 febbraio 2021
A Palazzo Zabarella una mostra esamina il primo movimento “moderno” dell’arte italiana attraverso il legame con la storia e il milieu dei collezionisti
Silvestro Lega, "L'elemosina", 1864

Silvestro Lega, "L'elemosina", 1864

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Prima li avevano chiamati “effettisti”, poi “macchiaioli”. Appellativi non proprio benevoli che Emilio Cecchi fece discendere dal fatto che questi pittori «disgraziatamente vivevano in un ambiente meschino, se non addirittura avverso: isolati, affamati, travolti infine dalla bestialità ufficiale». I tempi erano quelli di metà Ottocento e lo spirito dei macchiaioli quello dell’Italia che si svincolava dall’asservimento allo straniero per articolarsi in forma di vita nazionale.

Era lo spirito carico di entusiasmo e di speranze di artisti propugnatori di un risorgimento pittorico che coincideva con il risorgimento politico. La stanchezza della rappresentazione accademica, legata al gusto di una società fiacca, decadente, trovavano riscontro nel fastidio dei macchiaioli per la vita politica e nell’avversione della dominazione straniera. L’idea di un ritorno alla natura era un’esigenza fortemente sentita dagli artisti di ogni parte d’Italia.

Aveva trovato le sue prime espressioni nei paesaggi argentati e luminosi di Giacinto Gigante a Napoli, dove si era maturato Michele Cammarano con la sua pittura acre e pungente e dove sboccerà l’arte apparentemente timida, ma potente e velata di sconcertante tristezza di Gioacchino Toma; a Venezia ancora, dove Giacomo Favretto aveva rinsanguato la pittura col suo fresco vernacolo; in Lombardia dove gli scapigliati indulgevano a una scrittura intimista, ma nei quali l’accento del naturale era stato instillato dalla solitaria lezione del Piccio.

Più fortemente però che altrove il desiderio di soffermarsi sulla quotidianità fu sentito in Toscana con maggiore spontaneità, merito forse anche delle condizioni di una certa liberalità dovute all’arciduca Leopoldo, per cui a Firenze nelle sale del Caffè Michelangelo erano possibili discussioni accese nelle quali le ragioni dell’arte si mescolavano a quelle della politica. Socialmente, quando si affacciarono i macchiaioli nel 1855, l’Italia era indietro di un secolo rispetto a Francia e Inghilterra. Tuttavia con le riforme del ’48 si fece strada nello spirito degli artisti anche la necessità di una riforma dell’arte. I musei italiani erano pieni di quadri celebrativi, dei tanti stucchevoli Consiglio dei Dieci o delle tante Entrate di Carlo VIII a Firenze, perpetuate fin sulle pareti dei municipi, come a Siena.

A tutto questo si opposero le tavolette dei macchiaioli caratterizzate dal forte chiaroscuro a “macchie”, appunto, a torto considerate allora da certa critica come semplici bozzetti. L’amore per il naturale, l’istintiva ribellione all’accademismo, furono le molle che fecero scattare i macchiaioli, più che una vera e propria intelligenza critica. Infatti, se si escludono un personaggio attivo e turbolento come Nino Costa, pure lui pittore, che aveva conosciuto Corot e ne aveva parlato a Fattori, e come il critico e letterato Diego Martelli che, mantenendo contatti frequenti con la Francia e vivendovi per qualche tempo, riuscì a fare l’“importatore” di idee nuove, non c’era molto altro fino all’arrivo di Ugo Ojetti.

Furono loro, soprattutto Martelli, i veri sostenitori della pittura luminosa e guizzante dei macchiaioli, insieme alla nutrita schiera di collezionisti e mecenati prevalentemente toscani. Ed è proprio attorno a queste figure che è incentrata la mostra in corso a Palazzo Zabarella a Padova a cura di Giuliano Matteucci e Fernando Mazzocca. Attraverso un centinaio di opere provenienti per la maggior parte da collezioni private, offre così una lettura originale e inedita sui principali esponenti del movimento come Silvestro Lega, Giovanni Fattori, Giovanni Boldini, Telemaco Signorini, Federico Zandomeneghi e altri meno noti, ma comunque significativi, quali Adriano Cecioni, Odoardo Borrani. Raffaello Sernesi.

È attraverso la pittura di questi artisti che riusciamo a vedere le immagini limpide di una Italia ancora incompiuta sotto il profilo socio-politico, ma iconicamente riconoscibile, segno di una identità precisa e amata, descritta dalla fatica del lavoro, dalla lirica bellezza dei paesaggi, dalle scene materne tenere e potenti, dal disagio sociale reso con intensità.

Padova, Palazzo Zabarella
I macchiaioli. Capolavori dell’Italia che risorge
Fino al 18 aprile

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