sabato 3 maggio 2014
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Ricordava Renzo De Felice che la storia della Repubblica sociale italiana era per gran parte ignota perché era «anche la storia dei servizi segreti» di ogni Paese, Svizzera compresa. Giudizio contenuto nel Rosso e nero (1995) che a circa vent’anni di distanza non ha perso nulla di sostanziale. Lo ricordo a proposito di un documento, ovviamente segreto, proveniente dal gabinetto politico-diplomatico di Salò e contenente le “Clausole dell’armistizio fra l’Italia badogliana e gli Alleati”; inoltrato il 18 gennaio 1945 dal colonnello Fernando Collu, direttore dell’ufficio di collegamento della Guardia nazionale repubblicana presso il ministero degli Esteri, al sottosegretario Serafino Mazzolini e naturalmente vistato da Mussolini. Dunque a Salò, a pochi mesi dalla fine della guerra, erano ancora ignoti i contenuti dell’armistizio badogliano. Vicenda che aveva avuto aspetti tragicomici proprio nella fase più sensibile: il generale Castellano, inviato dallo Stato maggiore d’accordo con Badoglio, stabiliti risolutivi contatti con gli Alleati a Lisbona a metà agosto 1943, aveva avuto il testo dell’“armistizio corto”, cioè della resa incondizionata; ma il suo rientro in treno ne aveva fatto perdere le tracce, tanto che da Roma venne spedito a Lisbona il generale Zanussi per averne notizie. Questi ebbe allora il testo dell’“armistizio lungo” (cioè l’armistizio vero e proprio), dall’ambasciatore inglese Ronald Campbell, testo che giunse così a Roma il 1° settembre (dopo che Zanussi era stato trasportato al quartier generale anglo-americano di Algeri dagli Alleati, sospettosi di questa seconda missione e increduli del pasticcio italiano). Pochi giorni dopo, il 3 settembre, Castellano firmava a Cassibile l’armistizio corto (ignorando quello lungo); e anche Badoglio, al momento di firmare a Malta il 29 settembre l’armistizio lungo, mostrò la propria sorpresa per l’irragionevole peggioramento (voluto dagli inglesi) delle condizioni. Una farsa che continuò nel dopoguerra con la pubblicazione di contraddittorie memorie dei protagonisti. Come che sia, a conoscenza dell’armistizio erano solo i vertici del Regno del Sud: il re, Badoglio, il ministro Guariglia, Castellano, Zanussi, e i capi di Stato maggiore generale e dell’Esercito, Ambrosio e Roatta. Ma di questi nessuno andò a Salò. Né, per l’opposizione americana, ebbe seguito la proposta inglese di render pubbliche le clausole dell’armistizio già nel novembre 1943 (lo sarebbero state solo dopo la guerra). Gli stessi articoli di Mussolini pubblicati sul “Corriere della Sera” repubblicano non recano traccia di quelle clausole; in quello del 9 luglio 1944, Il consiglio della corona e la capitolazione, redatto sulle dichiarazioni «di uno che ha visto e ha vissuto», Mussolini anzi era obbligato a premettere: «Circa le condizioni dell’armistizio, nulla di preciso: ma la capitolazione imposta era stata accettata». Conclusione: nella Rsi nessuno, neanche il Duce, conosceva il contenuto dell’armistizio.Ciò spiega l’importanza di questo appunto ottenuto fiduciariamente da «fonte neutrale» (probabilmente portoghese, unico luogo neutrale dove erano circolate copie in inglese dei testi d’armistizio e dove, dopo il settembre 1943, era rimasto come agente diplomatico della Rsi il generale Vittorio Emanuele Terragni, fino ad allora addetto militare del Regno d’Italia). L’anonimo redattore certamente ebbe visione dei due testi dell’armistizio; dei diciassette punti di questo documento (divisi in clausole militari, territoriali, economiche e politiche, più una clausola addizionale), riassuntivi delle vere clausole armistiziali, non pochi sono quelli effettivamente rispondenti ai testi originali, mentre altri riportano solo voci pur allora plausibili sul piano della logica politico-militare delle riparazioni. Nel documento segreto, i primi quattro punti delle clausole militari, riguardanti l’impegno dell’Italia a operare contro i tedeschi e a consegnare flotta e aviazione, acconsentendo «a essere completamente disarmata», corrispondono effettivamente agli articoli dell’armistizio. Viceversa le clausole territoriali non hanno alcun rapporto con i testi originali (che non potevano trattarne, essendo materia da conferenza della pace, non d’armistizio); pure, chi redasse il documento ebbe buone informazioni: riportava voci esagerate, ma che pure allora correvano, su Pantelleria e Lampedusa alla Gran Bretagna e l’Elba alla Francia che, comunque, avrebbe modificato a suo favore la frontiera occidentale; giuste le osservazioni sulla Jugoslavia che «riceverà tutta l’Istria con le città di Fiume e Zara», e sulla Grecia che «riceverà tutte le isole italiane del Mar Egeo»; esatto anche il previsto riconoscimento dell’indipendenza dell’Etiopia, con la sorte delle altre colonie italiane demandata alla prossima conferenza della pace. Le clausole economiche sono quelle in cui maggiore è il mix di attinenza ai testi originali con voci fantasiose: sostanzialmente esatti i punti sull’assunzione da parte italiana delle spese di occupazione alleata; infondato quello invece sui due milioni di operai italiani che, dopo la guerra, sarebbero stati messi a disposizione delle potenze vincitrici (con tanto di quote numeriche per ciascuno Stato, tra cui primeggiava l’Urss con ottocentomila operai). Precisi i punti riportati nelle clausole politiche sulla soppressione delle leggi razziali, sull’abolizione di «ogni influenza fascista», su Mussolini che, al pari dei fascisti criminali di guerra, avrebbe dovuto essere consegnato alle Nazioni Unite. Letterale, infine, la rispondenza della clausola addizionale con la Dichiarazione di Québec di Roosevelt e Churchill dell’agosto 1943, diretta a «migliorare le clausole di questo armistizio in relazione all’importanza della partecipazione dell’Italia alla lotta contro la Germania».Non c’è che dire, l’opera dell’informatore che nel gennaio 1945 aveva segretamente fatto pervenire a Salò questo documento era stata un gioiello di spionaggio politico-militare. Gli Alleati infatti non l’avrebbero divulgato prima della fine della guerra.
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