lunedì 10 luglio 2023
Una mostra a Palazzo Reale celebra un’arte dove scorre la vita e che sboccia in un’idea gravida di storia: dal cinema alla fotografia
Omar Galliani, “De rerum naturae”, 2020 (particolare)

Omar Galliani, “De rerum naturae”, 2020 (particolare) - courtesy of the artist

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Le opere di Omar Galliani cercano occhi capaci di vedere, cuori che si emozionano, menti in grado di stupirsi. Invitano all’incontro, a creare una relazione con volti che sono geografie dell’esistenza, con paesaggi dove cielo e terra si toccano e si sostengono a vicenda, con corpi che sono anime, con ossa che navigano nel buio siderale tra piogge di stelle e di petali di rose…

L’arte di Galliani – a cui Palazzo Reale di Milano dedica una mostra, “Diacronica”, dal 13 luglio al 27 settembre – nasce dove scorre la vita, sboccia in un’idea gravida di storia dell’arte e del cinema e della fotografia. Un’idea che ha cullato, coltivato con cura, con sapienza, con ingegno. Così Galliani genera novità, in un abbraccio d’amore: il segno è figura e insieme orizzonte infinito. Grafite e legno, memoria della terra e fibre di vita, sono trasformati in un flusso continuo che non conosce fine. L’arte non può mai essere solo idea ma lavoro che richiede metodo, fatica, lotta e soprattutto tempo, che è poi la vita stessa. Un artista che non dà la vita per la sua opera e non genera l’opera con la sua vita non è un artista. Nessun romanticismo, ma la semplice coscienza che non c’è arte senza atto creativo. Senza atto creativo abbiamo qualcosa d’altro che può essere provocazione, gioco, nonsense, colpo di genio, ma l’arte è altrove.

Dice Galliani: «Ogni volta che inizio un disegno o un dipinto dimentico la terra e il cielo. La superficie è morbida e algida, il segno è netto e scuro. Il desiderio di iniziare l’opera nasce prima, durante un viaggio, in una sala d’attesa, mentre salgo o scendo una scala, ascoltando musica, correndo, nuotando, sognando. La bellezza è ancora lì, sospesa tra la gravità del suolo e il cielo. Dire dove alberghi o riposi prima del gesto creativo è difficile dovendola liberare dall’orrore e dalla decadenza dei tempi che viviamo». Con Galliani la bellezza riacquista spessore e dignità perché sa coniugare l’uomo di oggi e l’uomo di sempre. Nel volto incarna lo spirito e spiritualizza la carne. La vera svolta è nel tentativo, riuscito, di una poetica dell’unità, che sembrava irrimediabilmente perduta. I volti di Galliani sono abitati dal mistero: l’infinito è presente in noi e insieme chiede di essere scoperto. La nostra vita è un’avventura e un’avventura è l’arte di Galliani, il grande maestro del disegno contemporaneo. Nel nome dell’assoluto le sue misure diventano smisurate: i volti sono i più grandi mai realizzati. Nel nome dell’assoluto una galassia può essere ridotta ai confini di una tavola, quasi a trattenere l’universo che ci sovrasta e quello che è in noi.

Galliani ha saputo opporsi con genio e coraggio a quell’arte moderna e contemporanea che ha negato l’uomo distruggendone il volto: Picasso l’ha ridotto a maschera, De Chirico a testa di cuoio senza occhi né bocca, Bacon a macchia deforme. E così l’uomo diventa cosa tra le cose o naufrago in un oceano privo di senso. Ma il nostro destino non si risolve nella dannazione di una terra oppressa da un cielo vuoto, ai margini di un infinito impenetrabile. Galliani non si rassegna al nichilismo, sa che c’è un di più e si lascia afferrare da questo mistero che è la vita, un mistero che ci supera e ci attrae.

È stato sottolineato come il suo processo creativo guardi alla tecnica fotografica e cinematografica, eppure la percezione a cui ci invita supera la visione retinica del nostro occhio, ma anche di qualsiasi meraviglioso artificio. Solo uno sguardo che non conosce limiti è capace di cogliere l’umano. Da qui la vocazione a un disegno infinito, o, come dice lui, “infinitissimo”. «Io penso a un disegno totale, penso a un disegno del mondo, penso a un disegno formidabile, penso a un disegno eroico, penso a un disegno mai riuscito» scriveva nel 1999 in un rosario di aforismi che ben raccontano la sua opera.

Esercizio, progetto, stadio di passaggio nella maturazione di un’opera, genesi dell’arte: il disegno non è mai stato considerato un genere degno di sviluppo autonomo, se non da pochi. Tra questi pensiamo a Seurat, i suoi fogli sono forse più belli delle opere su tela, e a Redon, la cui visionarietà sa cogliere le sfumature del nostro mondo interiore. Galliani ha svincolato una volta per tutte il disegno dalla condizione ancillare, lo ha portato a misure prima impensabili e ne ha fatto un’opera d’arte totale. E questo perché la sua arte non procede per sottrazione: l’arte delle post-avanguardie è spesso arte della semplificazione, un’arte che non coglie l’essenziale ma che tutto banalizza per poi agonizzare sulla superficie dell’essere. Galliani cerca l’essenziale, vuole cogliere il succo delle cose e si tuffa nelle profondità senza temere gli abissi. Vuole offrirci il respiro della vita, il fascino dell’origine, in un gioco degli opposti mai risolto: «Il mio lavoro si muove tra luce e ombra, anche quando non uso il nero e lavoro con il rosso, il blu, il giallo. È sempre però un contrasto cromatico, un uso simbolico del colore, spesso l’assoluto del bianco e del nero, a cui si sovrappongono a volte strati di un pigmento sanguigno. La dicotomia che alberga nelle mie opere è costantemente alla ricerca di un punto di “imminenza” da cui ricominciare il viaggio del “fare”».

Tenere insieme gli opposti è il cuore segreto e vivo della sua arte e la sua poetica dell’abbraccio supera le apparenti contraddizioni. A partire dal suo strumento prediletto, la grafite, che appare nera come il buio, eppure è luminosa, riflette la luce.

Tutto si produce dal movimento del corpo di Galliani sul corpo del pioppo o del foglio, un contatto pelle a pelle. Tattile è la forma della creazione: la trama dei segni entra in dialogo con la nervatura del legno o la tessitura della carta. Attraverso la grafite – dal greco “grafèin”, scrivere – inventa un alfabeto nuovo. Il disegno è esplorazione, conquista lenta della superficie. La verticalità del tratto punta verso l’alto, oltre la tavola, oltre la stanza, oltre qualsiasi limite fisico. Vertigine dell’altezza che ci riporta alla Genesi, alla separazione delle tenebre dalla luce, per abitare l’origine. Il mondo di Galliani non è in bianco e nero, non regge sul principio di non contraddizione. Il nero si fa luce. Il corpo a corpo tra artista e materia genera spirito. L’ombra è gravida. Dall’ombra, segno del mistero, Galliani porta alla vita la sua creatura.

Nel gioco infinito del chiaroscuro la metamorfosi è un’epifania di simboli: il paesaggio si fa volto, il volto paesaggio. Per esser colto richiede una distanza fisica dalla tavola, perché il volto è orizzonte: è la trama del disegno e insieme è oltre la trama. L’arte è danza tra immanenza e trascendenza. Solo così l’anima si fa volto, il volto si fa anima.

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