mercoledì 16 settembre 2020
Disarmati e senza averi, in piena luce e con i documenti in regola; oppure di notte, fra paura e speranza: su quella linea si muore o si rinasce
Migranti attraversano il fiume Evros sul confine tra Turchia e Grecia

Migranti attraversano il fiume Evros sul confine tra Turchia e Grecia - Reuters/Marko Djurica

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Federica Manzon, autrice per Aboca del romanzo Il bosco del confine (pagine 176, euro 14,00) dove affronta alcuni temi proposti in questo articolo, partecipa a Pordenonelegge 2020 (domenica, Auditorium della Regione, ore 17), oggi al via. Sempre domenica c’è anche Susanna Tamaro, con il nuovo romanzo (Spazio Gabelli, alle 10.30). Tra gli altri ospiti: Antonio Scurati, Leonardo Becchetti, Chiara Valerio, David Quammen, Rita Dalla Chiesa, Paolo Giordano, Donatella Di Cesare e Gian Carlo Caselli.

In un’Europa senza confini, i confini ci mancano. No, non i confini strettamente sorvegliati che sono la soglia dove il potere, aggressivo e coercitivo, si manifesta. Non i confini dei muri e del filo spinato che per decenni hanno diviso i cittadini d’Europa separando famiglie e sogni, vestiti e automobili, affari e menzogne. Non proviamo nostalgia per i passaporti requisiti e faticosamente ottenuti, per il respiro trattenuto davanti ai fucili dei finanzieri alla dogana. A mancarci piuttosto è un sentimento che la gente di frontiera conosce bene. Prendiamo Trieste, luogo periferico d’Italia e per questo luogo di confine per eccellenza. A Trieste si diceva di là per indicare la zona B in cui nel 1947 era stato diviso l’appena denominato Territorio Libero di Trieste, di là era poi la vecchia Jugoslavia, ma anche più genericamente l’oltrecortina. Ma soprattutto di là indicava un mondo al contempo misterioso e familiare. Si diceva di là come si sarebbe potuto indicare con un cenno del mento la stanza abbandonata in fondo al corridoio di una casa di famiglia, custode di promesse e delusioni. Il confine è quel punto in cui torniamo a insistere come su una sutura, dove a pulsare sono le frequenze dell’inconscio (di un inconscio collettivo). Lo si capisce vivendo nei pressi di un confine perché è difficile rimanere neutrali, è più facile volerlo violare oppure esorcizzare. La sua semplice esistenza rappresenta un invito sussurrato: sorpassa questa linea dai, sempre che tu ne abbia il coraggio. E quella linea si oltrepassa in molti modi.

Sarebbe meglio a piedi, disarmati e senza averi, con la postura del viandante o del pellegrino. La si oltrepassa in piena luce e con i documenti in regola, la buona coscienza di appartenere alla parte giusta. Oppure di notte, con il favore delle tenebre, con un misto di paura e di speranza. Perché sul confine si muore o si rinasce. Per lungo tempo, in molti stati dell’Europa dell’Est, andare “oltreconfine” era sinonimo di oltrepassare il limite, andare in un luogo da cui non si sarebbe più tornati. Era così che li chiamavano quelli che se ne andavano all’estero e vi rimanevano, i “non ritornati”. I rinati o gli scomparsi di cui non si sapeva più nulla: la posta veniva intercettata oppure non scrivevano più. Oggi, nel regno della libera circolazione delle merci e delle persone, torna a prenderci una strana nostalgia della frontiera. Perché prima dei muri e delle guardie armate, il confine è soprattutto una linea che ci chiama e chiede di essere attraversata. È un bosco, una montagna, un fiume (il lungo Danubio d’Europa). È un magnete che attrae e respinge. Dai tempi dei tempi, nei confini gli uomini hanno nascosto denaro, armi, messaggi in codice e promesse, mine, e talvolta anche se stessi. Hanno compiuto affari e baratti, conoscenze e scoperte, dazi e raggiri. La nostalgia del confine è in questo senso lo struggimento per una familiarità perduta con la soglia da oltrepassare, con lo sconosciuto che sta di là. L’Altro che incombe come uno spettro e una tentazione dalla stanza accanto. Per questo le terre di confine sono grandi laboratori di convivenza e insieme culle di nazionalismi e rivendicazioni identitarie. Terre cosmopolite e terre di paura. E forse ciò di cui sentiamo la mancanza è proprio questa perenne possibilità stare in bilico tra l’uno e l’altro, di attraversare i limiti e di incontrare il diverso, questa costante e benefica tensione che preserva dalle derive semplicemente inclusive o nazionaliste, e allena al pensiero complesso che oggi più che mai ci manca.

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