mercoledì 26 dicembre 2012
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​«Conoscerei volentieri un’altra morte». La poesia che nel Novecento segna epocalmente il senso del natale, nella storia del mondo, Viaggio dei Magi, di Thomas Stearns Eliot, termina con questo verso dominato dalla parola «morte». Antifrastico, rispetto al senso riconosciuto del Natale, la nascita, come il nome stesso esplicita. La poesia, stupefacente, narra, nella voce di uno dei Magi, il viaggio da Oriente in seguito alla premonizione che un dio che si sarebbe fatto uomo per amore degli uomini: il lungo viaggio, i cammelli spossati, i predoni nel deserto, il vino adulterato nelle taverne… Poi, di colpo, l’evento. E di fronte a quella nascita, il ricco, nobile e illuminato sapiente dell’antico mondo orientale si accorge che quella nascita coincide con una morte: muore per sempre il mondo delle ancelle che servono sorbetti sulle terrazze pensili, il mondo della bellezza effimera e delle caste, un intero ordine sociale è rovesciato da quel bambino che nasce poveramente e miracolosamente. Il sapiente e il poeta, il Mago e Eliot, comprendono che si tratta della morte di un ordine non solo sociale, ma cosmico. Per questo, da quel momento, attendono che giunga un’altra morte, ulteriore, verso una realtà che si è svelata.Altri grandi poeti, nel Novecento, sottolineano la realtà magica dell’accadimento attraverso la visita e lo sguardo dei magi: Yeats, Frénaud. Versi ad alta temperatura, ispirati dal miracolo e dallo scandalo, quando poeti anche importanti del Novecento italiano cantano un Natale da un punto di vista più intimistico, una sorta di promessa o speranza nel buio del tempo quotidiano. Due volumi editi da Interlinea, due ottimi regali natalizi, antologizzano poesie sulla Natività, il primo, Natale in poesia (nuova edizione di un libro da tempo mancante) dal IV al XX secolo, spaziando da Iacopone, Juan de la Cruz, Wordsworth a Pasternak e Montale, il secondo, L’ombra della stella, a cura di Giovanni Tesio, sul Natale dei poeti d’oggi. E in entrambi gli ottimi libri confermo la mia impressione: che i più quotidiani, minimalisti poeti del Natale siano gli italiani del Novecento e di oggi, salvo qualche eccezione. Versi a volte felici e mirabili, ma fondati più sulla metafora dell’amore e della speranza che sulla radiante epifania della Stella mentre in una mangiatoia sta nascendo il Figlio. Credo che il Natale non sia un tema esaltante per una tradizione poetica lirica, petrarchesca, mentre è quintessenza della poesia stessa per i poeti visionari, prevalentemente anglofoni.Non a caso il capolavoro letterario sul Natale, il libro che diviene un archetipo, generante un fiume di riprese teatrali e cinematografiche, è il Racconto di Natale di Charles Dickens. Carol, nel titolo originario, indica un racconto che è anche canto, una narrazione in cui storia e poesia si fondono musicalmente.Un pomeriggio nebbioso, giallo e buio, già sera: apri il libro e dalle prime righe appare la Londra ottocentesca caliginosa e opaca, popolata di una folla di fantasmi sciamanti per le strade una serata particolare, la vigilia di Natale. Ma per Ebenezer Scrooge quella data non significa altro che una fastidiosa occasione per difendersi da scocciatori, benefattori che chiedono offerte per i poveri, l’impiegato che bisogna lasciare a casa almeno il giorno di Natale, il nipote che immancabilmente gli si presenta per invitarlo alla cena con la famiglia, e che immancabilmente bisogna cacciare. Scrooge è solo, ricco, avaro, ha passato tutta la vita pensando al denaro. All’improvviso, quando quella sera di vigilia, mentre tutti sciamano festanti per le illuminate vie londinesi, dopo la solita cena rapida nella squallida taverna si accinge ad aprire il portone di casa, vede riflesso sul batacchio il volto del suo socio Jacob Marley, morto sette anni prima. Terrorizzato non può sfuggire alla visita dello spettro, che gli narra della sua infelicità e della sua dannazione per avere vissuto come Scrooge, nell’esclusiva dedizione al danaro, rovinando tante persone. Gli annuncia la visita di tre fantasmi, che il vecchio avaro vorrebbe volentieri evitare. Ma non li eviterà, e tutti conosciamo la storia, divenuta leggendaria, della visita del fantasma dei Natali passati, quello del Natale presente e quello dei Natali futuri. Letteratura e cinema continuano a ispirarsi a questa favola straordinaria, di potente, attanagliante visionarietà e insieme di immediata popolarità. Capolavoro da un capolavoro il Canto di Natale di Topolino di Walt Disney, un classico del cinema non solo di animazione, ma di anima.Nella sua Londra di botteghe, fabbriche infernali, cambisti, banchieri, mercanti, l’uomo può partire solo se qualcuno gli appare, nel sonno, e gli addita una rotta. Scrooge, recalcitrante, brontolone, diffidente, comunque la segue, e vola. La scoperta è il presente: Scrooge si trasforma, la notte di Natale, non tanto per paura della dannazione, ma per il disperato rimpianto di non avere amato. La notte di Natale vede quindi la redenzione e la rinascita di Scrooge, che non è un eroe ma un uomo che ha saputo credere in ciò che gli è apparso in sogno, si è fidato dell’apparizione, ha saputo accettare ciò che vedeva, per quanto gli apparisse irreale. A volte la realtà ci fa paura per la sua grazia incontenibile: basta accettarla, come i pastori analfabeti, i sapienti Magi, l’avaro e misantropo Scrooge che non sapeva di essere buono, e una notte lo scoprì, scoprì che era stato soltanto solo e da quella notte non lo sarebbe stato mai più.
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