lunedì 17 dicembre 2012
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La mia generazione conserva la memoria di una predicazione annuale sulle realtà ultime e definitive, dette appunto «novissimi». Morte, giudizio, e quindi l’esito definitivo, inferno o paradiso, stavano come eventi davanti a ciascuno di noi, eventi capaci di destare paura, o almeno timore. Soprattutto il canto del Dies irae («Giorno d’ira sarà quel giorno…»), che risuonava in occasione delle liturgie dei morti, ci descriveva il giudizio universale e particolare al quale saremmo stati chiamati. Cos’era il giorno della morte se non innanzitutto il giorno della chiamata in giudizio di ciascuno di noi da parte di Dio? E va detto che erano soprattutto le persone più sante ad avere paura del giudizio, dunque quanto più dovevano temerlo i cristiani quotidiani… Sì, anche a causa di questa paura angosciosa sovente insegnata, il discorso sul giudizio è stato screditato. E così da anni su questo tema regna il silenzio, in forza del quale molti si rivolgono ad altre letture delle realtà ultime: la grande diffusione della credenza nella reincarnazione, per fare solo un esempio, vuole riempire il vuoto lasciato dalla predicazione ecclesiale. Ma il tema del giudizio nel cristianesimo non può essere evaso, è decisivo per conoscere il vero volto di Dio. La predicazione del giudizio fa parte del Vangelo, della buona notizia, e come buona notizia, certamente a caro prezzo come la grazia, il giudizio va confessato, ricordato e preparato da ogni credente. C’è però una stranezza, una contraddizione in molti cristiani: da un lato interpretano eventi tragici come giudizio di Dio che castiga, dall’altro non danno consistenza alle parole che proclamano ogni domenica nella messa: «Il Signore Gesù Cristo di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti». In verità Dio non ci castiga mentre siamo in vita: in questo caso saremmo infatti "costretti" ad agire secondo il suo volere, senza la libertà che appartiene alla nostra dignità umana. Dio non ci castiga quaggiù, ma resta vero che siamo noi a raccogliere, già qui e ora, il frutto del nostro operare. Dio pone davanti a noi la via del bene e quella del male (cfr. Dt 30,15; Ger 21,8), e se noi ci incamminiamo sulla via del male, incontriamo il male, la morte. Questo è vero, ma Dio si riserva di intervenire nel giorno del giudizio, e per ora resta nella pazienza che attende la nostra conversione (2Pt 3,9.15). Alla fine della storia ecco dunque venire «il giorno del Signore»: il Signore stesso verrà e dovrà giudicare, discernere ciò che abbiamo operato, obbedendo alla sua Parola oppure opponendoci a essa fino a rifiutarla.
Nei profeti l’attesa del giudizio va di pari passo con quella, appena evocata, del «giorno del Signore» (jom JHWH), due realtà immanenti l’una all’altra. Per Amos (metà dell’VIII secolo a.C.), che per primo attesta l’espressione «giorno del Signore» in questo senso, il giudizio assume un significato di castigo sull’Israele infedele e idolatra. Per questo motivo egli afferma con forza: «Guai a coloro che attendono il giorno del Signore! Che cosa sarà per voi il giorno del Signore? Tenebre e non luce!» (Am 5,18). Partendo da una visione concernente il popolo di Dio, l’attesa di questo giorno assume poi tratti più universali. Il profeta Isaia, per esempio, pochi decenni più tardi scrive: «Il Signore sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli … Ci sarà un giorno del Signore dell’universo contro ogni superbo e altero … Sarà piegato l’orgoglio degli uomini, sarà abbassata l’alterigia umana; sarà esaltato il Signore, lui solo, in quel giorno» (Is 2,4.12.17-18). Comincia dunque ad apparire con chiarezza una valenza del giudizio che sarà ampiamente sviluppata nella predicazione profetica e sapienziale: il giorno del giudizio è atteso come ristabilimento della giustizia compiuto dal Signore a favore di quanti nella storia sono stati vittime, «senza voce», privati della possibilità di una vita degna di questo nome. È impressionante constatare l’abbondanza di affermazioni e di invocazioni al riguardo presenti nei Salmi: «Il Signore giudicherà il mondo con giustizia, governerà i popoli con rettitudine» (Sal 9,8-9); «Da Dio viene il giudizio, lui solo abbassa e innalza» (Sal 75,8); «Dio si alza per il giudizio, per salvare tutti i miseri della terra» (Sal 76,10); «Sorgi, o Dio, e giudica la terra, a te appartengono tutte le genti!» (Sal 82,8)… Sì, il giudizio è assolutamente necessario affinché la storia abbia un senso e le nostre azioni trovino la loro oggettiva verità davanti al Dio che vuole il ristabilimento della giustizia. Che senso avrebbe la vita di ciascuno di noi, la storia, se tutti – lo schiavo che è morto oppresso e senza dignità, così come il ricco gaudente che ha perseguitato il povero – avessero la stessa fine, lo stesso salario?
Che senso avrebbe la presenza di Dio, se ciascuno di noi, qualunque scelta mortifera faccia nella vita, trovasse alla fine lo stesso esito degli altri che hanno speso la vita per il bene? Se c’è Dio, c’è un giudice che vuole il ristabilimento finale della giustizia, della vittoria del bene sul male, della vita sulla morte. Lo aveva compreso anche un filosofo ateo come Adorno, quando affermava che una vera giustizia richiederebbe un mondo «in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata, ma fosse anche revocato ciò che è irrevocabilmente passato», fino a intravedere come compimento definitivo della giustizia e della liberazione per tutti un evento inaudito, che potrebbe essere solo la resurrezione dei morti. Strettamente connessa a questa visione del giudizio è la dottrina della retribuzione personale, insegnata dai profeti (si veda Ez 18,1-32; 33,10-20), e così riassunta in un salmo: «Tu, o Signore, renderai a ogni uomo secondo le sue azioni» (Sal 62,13). Sono parole ampiamente riecheggiate nel Nuovo Testamento (cf. Rm 2,6; Ap 2,23; 22,12), che risuonano anche sulla bocca di Gesù: «Il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni» (Mt 16,27). Lungo la sua vita, però, Gesù rifiuta di operare il giudizio, contrastando l’impazienza di quanti pretendono di essere giusti e dunque vogliono estirpare già nella storia la zizzania, con il rischio di sradicare pure il grano: «Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: "Raccogliete la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio"» (Mt 13,30). D’altra parte Gesù annuncia con immagini apocalittiche la venuta del giorno del giudizio, soprattutto nel suo discorso escatologico (cf. Mc 13 e par.). Da credente ebreo qual è, confessa che questo mondo e questa creazione vanno verso una fine, verso il «giorno del Signore» (che nel Nuovo Testamento diventerà «il giorno del Signore nostro Gesù Cristo»: 1Cor 1,8), giorno di salvezza e di giudizio. Ciò avviene per un preciso disegno del Dio che è Signore della storia e del tempo, il quale desidera instaurare il suo regno di giustizia e di pace, dando inizio ai cieli nuovi e alla terra nuova da lui preparati (cf. Is 65,17; 2Pt 3,13; Ap 21,1). Tutto questo coinciderà con la venuta gloriosa del Figlio dell’uomo: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13,26; cf. Dn 7,13-14).
Nello stesso tempo, Gesù confessa la sua ignoranza relativa all’ora precisa del giorno del giudizio: «Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, ma solo il Padre» (Mc 13,32). Se Gesù non conosce l’ora, annuncia però il criterio del giudizio: il concreto amore fraterno. Ce lo rivela in una pagina straordinaria, quella del giudizio finale secondo Matteo (Mt 25,31-46). «Quando il Figlio dell’uomo», cioè Gesù stesso, il figlio di Dio, «verrà nella sua gloria, davanti a lui saranno riunite tutte le genti». Con un’immagine tratta dal profeta Ezechiele, Gesù afferma che il Figlio dell’uomo »separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra». Il giudizio, a un tempo universale e personale, non si compie al termine di un processo: viene solo presentata la sentenza, perché la nostra vita, qui e ora, è il luogo di un processo particolarissimo. Per risvegliare in noi questa consapevolezza Gesù descrive il duplice, simmetrico dialogo tra il Re/Figlio dell’uomo e quanti si trovano rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra. Ai primi, definiti «benedetti del Padre», dona in eredità il Regno dicendo: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, in carcere e siete venuti a trovarmi». Sì, il povero che manca del necessario per vivere con dignità è "sacramento" di Gesù Cristo, perché con lui il Figlio di Dio ha voluto identificarsi: chi serve il bisognoso serve Cristo, lo sappia o meno. Di più, per noi cristiani i poveri sono anche «sacramento del peccato del mondo» (Giovanni Moioli), dell’ingiustizia che regna sulla terra, e nell’atteggiamento verso di essi si misura la nostra capacità di vivere nel mondo quale corpo di Cristo. Quando infatti vediamo una persona oppressa dalla povertà, dovremmo saper interpretare questa situazione come il frutto dell’ingiustizia di cui anche noi siamo responsabili. Da tale presa di coscienza scaturirà poi la disponibilità a farci prossimi a chi soffre per lottare contro il bisogno che lo angustia; e quando avremo operato per eliminare il bisogno, anzi mentre operiamo, ecco che il povero diventa per noi sacramento di Cristo, anche se lo scopriremo solo alla fine dei tempi… Nell’ultimo giorno tutti, cristiani e non cristiani, saremo giudicati solo sull’amore, e ci sarà chiesto solo di rendere conto del servizio che avremo praticato verso i fratelli e le sorelle, del nostro amore soprattutto verso i più bisognosi, gli ultimi, le vittime della vita. E così il giudizio svelerà la verità profonda della nostra vita quotidiana, il nostro vivere o meno l’amore nell’oggi: il giudizio lo decidiamo ora e qui! Il giorno del giudizio – dice l’apostolo Giovanni – è «il giorno in cui abbiamo fiducia» (cfr. 1Gv 2,28; 4,17), perché «Dio è più grande del nostro cuore, anche quando il nostro cuore ci accusa» (1Gv 3,20).
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