sabato 19 settembre 2015
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Vi è una storia che da luglio circola tradotta in una ventina di Paesi, selezionata tra le tante di fuggiaschi dalla Corea del Nord, unico reame comunista al mondo. La storia di una fuga per la dignità, non per il benessere o per la vita, di una giovane donna che – salvata se stessa e i propri familiari – ha deciso di dedicarsi alla riconciliazione tra le Coree, all’impegno verso i compatrioti, ma anche a spiegare i limiti della nuova libertà in una terra del benessere che guarda con sospetto e a volte con sufficienza a chi vi approda in fuga dall’orrore del regime del Nord.Hyeonseo Lee, la Ragazza dai sette nomi che dà il titolo al volume della Mondadori che lei stessa presenterà oggi a Pordenonelegge, è nata in una famiglia integrata nel sistema di potere nordcoreano e per questo relativamente benestante. Per 17 anni cresciuta a Hyesan, una città di frontiera con la Cina, convinta che il suo Paese fosse «il migliore del mondo» e che l’avversario sudcoreano nascondesse dietro la facciata di benessere e modernità un regime brutale che perseguitava i suoi stessi cittadini obbedendo all’alleato americano. Teso solo ad attaccare «il paradiso del popolo» a nord del 38° parallelo e asservirlo a politiche imperialiste e consumiste. Un’illusione, come pure quella del benessere che doveva cadere verso la fine dell’adolescenza, durante una delle peggiori carestie che sono state una costante nella vita del suo Paese fino a tempi recenti.Come altri connazionali favoriti da connessioni e possibilità, Hyeonseo Lee prese allora la via dell’esilio, verso lontani parenti da tempo in Cina, oltre le luci permanentemente accese al di là del fiume Yalu che contrastavano con l’oscurità autarchica della sponda nordcoreana. Allora non lo sapeva, ma avrebbe impiegato ben 12 anni per arrivare – riunita con parte della famiglia – alla meta che allora non aveva ancora individuato, quella della libertà per sé e per i suoi cari, oltre le blandizie di un sistema (quello cinese) solo all’apparenza diverso da quello da cui fuggiva.Non molto tempo dopo l’uscita clandestina dalla patria, la sua assenza da Hyesan venne notata dalle autorità nordcoreane e fu la madre ad avvertirla di non tornare per evitare le punizioni che il governo nordcoreano riserva ai fuggitivi: carcere, torture, morte. Hyeonseo cominciò così la sua fuga sotto false identità, sempre più lontana ma insieme spinta dal desiderio di rientrare in patria per mettere al sicuro la sua famiglia. Ci riuscì solo nel 2008, almeno per la madre e il fratello, consegnate con grave rischio da un passatore a Hyeonseo in attesa oltre il fiume nella città cinese di Changbai. La loro vicenda non doveva finire con la riunione, ma proseguire per diversi mesi fino alla salvezza finale dopo un viaggio attraverso Cina, Laos, Thailandia.Un’epopea, quella dell’oggi trentacinquenne Hyeonseo, diversa dalle vicende di connazionali che a migliaia hanno tentato la fuga, spesso per scomparire durante il viaggio o finendo per essere rimandati indietro verso una sorte di persecuzione e «rieducazione». Diversa per le circostanze, a partire da un esilio scelto e non inizialmente dettato da persecuzione e segnata dalla scelta rischiosa di tornare indietro per salvare i suoi cari, diversa per la sua conclusione.Arrivata in Corea del Sud, dopo alcuni anni di nascondimento per evitare ritorsioni, la giovane donna ha presto scoperto che le luci e le lusinghe di Seul nascondevano altre difficoltà: quelle dell’adattamento, dell’emarginazione, anche della strumentalizzazione della sua esperienza. In un apparente alone di confortante benessere e libertà sotto cui si nascondono sospetto e anche ostilità per i fuggiaschi – come confermato tempo fa in un suo contributo al Wall Street Journal – «noi profughi dobbiamo ricominciare da capo. Il pregiudizio verso i nordcoreani e gli sguardi glaciali sono stati ostacoli difficili da superare».Quello che per altri è stato un limite a ricrearsi una vita libera dalla paura, per Hyeonseo Lee è stato invece uno stimolo a dare un senso alla sua nuova esistenza. Da alcuni anni la sua vita è divisa tra studi – si è recentemente laureata in cinese e inglese all’Università Hangkuk per gli Studi stranieri – e un’intensa attività di sensibilizzazione sulla situazione dei diritti umani in Corea del Nord e sulla condizione dei profughi, sia attraverso conferenze e incontri con personalità politiche, sia attraverso numerosi contributi per media internazionali.Per molti un sogno concretizzato, l’assimilazione almeno di facciata nel sistema sudcoreano, ma per Hyeonseo Lee una tappa. Come ha segnalato in una recente intervista al quotidiano sudcoreano Korea Times, la sua intenzione è di lavorare a tempo pieno in strutture Onu o in altre organizzazioni internazionali per dare il massimo risalto possibile ai diritti dei suoi connazionali. Non solo quelli negati dal regime di Pyongyang, ma anche quelli ancora limitati dei rifugiati politici.
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