Ecco perché l'antica Roma aveva paura delle donne ricche
di Aglaia McClintock
L’età classica costruì un equilibrio destinato a durare secoli: le donne sono celebrate come madri ma vengono escluse dalla trasmissione dei beni

Il Festival del Classico a Torino giunge all’8ª edizione: ideato dalla Fondazione Circolo dei lettori presieduto da Luciano Canfora e curato da Ugo Cardinale, ha il titolo “Oikonomia/Plutocrazia: dalla cura della casa comune al potere della ricchezza”. Il festival indaga, fino a domenica tra il Circolo dei lettori e delle lettrici, l’Accademia delle Scienze, la Scuola Holden, i teatri Carignano e Gobetti, le radici culturali ed etiche della disuguaglianza, e invita a riflettere sul senso del vivere insieme. Attraverso argomenti come il mito dell’età dell’oro, la crisi della comunità, il contrasto tra ricchezza e povertà, il programma offre una panoramica su letteratura, filosofia, storia, economia. Aglaia McClintock, che anticipa in questa pagina i temi del suo intervento, interverrà sabato 13 alle 10 al Circolo, dove discuterà con Maurizio Bettini di “La ricchezza delle donne e come liberarsene”.
Le percentuali di chi oggi detiene la ricchezza del mondo sono inequivocabili: l’86% dei miliardari sono uomini e appena il 14% sono donne. Ma la distanza è ancora più marcata se guardiamo all’origine della ricchezza di queste ultime: appena il 3-5% del totale ha costruito da sé la propria fortuna contro i 75% degli uomini. Questa differenza di risorse economiche tra gli uomini e le donne non nasce oggi: ha radici in un passato lontano.
La necessità di controllare i patrimoni femminili era già sentita nella Roma antica. Le matrone erano infatti in grado di ammassare enormi fortune grazie alle norme della successione: ereditavano dalla loro famiglia di origine, dal marito, perfino da chi non aveva con loro legami di sangue. Alcune accumularono ricchezze tali da poter essere definite, con termine moderno, plutocrati. I gioielli che l’archeologia ci ha restituito ne sono il segno più appariscente.
Quando nacque, allora, un tetto di cristallo ante litteram? Nel momento in cui il legislatore romano ritenne necessario limitare la ricchezza muliebre. Come arginarne il potenziale sovversivo? Accadde nel II sec. a.C. in una fase di grande emancipazione femminile in cui le matrone sempre più spesso amministravano e gestivano le sostanze familiari mentre gli uomini erano lontani in guerra. Nel 169 a.C. il legislatore romano intervenne con una misura chirurgica per limitare i patrimoni femminili. Si tratta della lex Voconia, rivolta esclusivamente alla prima classe di censo, l’élite più ricca, per l’epoca l’equivalente di quel 1% che oggi detiene la maggioranza dei capitali. La logica della legge è chiarissima: le grandi fortune non possono frammentarsi; non possono uscire dalla linea maschile; e soprattutto non possono finire nelle mani di una donna come erede principale. Le donne possono mantenere ricchezza, anche molta, ma non possono diventare eredi universali. Non si tratta di togliere loro denaro – anzi il sistema romano funziona se le donne sono possidenti, attive, economicamente presenti – ma di non disperdere i grandi p atrimoni in modo da preservare le strutture del potere. Un modello semplice ed efficace: facoltose sì, ma senza capacità decisionali. Il diritto sviluppa un’idea già presente nella cultura romana: le donne sono custodi dei possedimenti familiari, ma non protagoniste della direzione che essi possono prendere. I beni mobili – oro, argento, vesti, suppellettili – restano a loro, mentre la terra, le case, gli asset produttivi vanno agli uomini. È una distinzione funzionale: i beni mobili sono liquidi, utili nelle emergenze; gli immobili garantiscono continuità, potere, clientela. E accanto all’immagine della matrona «cassaforte», riaffiora periodicamente il suo contraltare: la donna dedita al lusso, che dissipa la ricchezza ed è potenzialmente pericolosa. Di questo binomio donna/lusso, il mito di Tarpeia, lapidata con l’oro che aveva chiesto ai Sabini, è un esempio antichissimo. L’immaginario romano oscilla tra questi due poli: le seduttrici lussuriose capaci di sperperare un patrimonio in un battito d’ali e le madri integerrime che custodiscono le proprietà come un caveau familiare.
Le donne possono accumulare, conservare, proteggere; ma non possono interrompere la linea ereditaria che la patria potestas garantisce di padre in figlio. È qui che Roma costruisce un equilibrio destinato a durare secoli: le donne vengono celebrate come madri, figure centrali nel tessuto simbolico della città, e allo stesso tempo sono escluse dalla trasmissione dei beni ai propri figli. Una madre non è l’erede dei figli, né i figli sono gli eredi della madre. La sua ricchezza sostiene la famiglia, ma non la orienta.
In questo equilibrio complesso c’è un dato sorprendente: le cittadine romane non protestarono contro la lex Voconia, che limitava il loro accesso ai grandi patrimoni. Forse molte di loro pensavano fosse giusto che l’erede maschio mantenesse l’ordine e l’equilibrio della famiglia e le proteggesse. Ventisei anni prima, nel 195 a.C., invece le matrone avevano protestato con veemenza contro la lex Oppia, che vietava loro di possedere più di una mezza oncia d’oro, di portare vesti variopinte, di utilizzare il cocchio per la città di Roma al di fuori delle funzioni religiose. Contro questa legge scesero in piazza, bloccarono il foro, ne ottennero l’abrogazione e riebbero i loro gioielli, simboli del loro ruolo sociale. Non dimentichiamo che i gioielli erano beni-rifugio oggi come allora. Ovidio, guardando una matrona scintillante di gemme, si chiede che follia sia portare il proprio census sul corpo. Forse non era follia. Forse era, semplicemente, prudenza. Un bracciale si vende, un collier si nasconde, un anello si passa di mano. I beni mobili hanno questa virtù: sfuggono al controllo, salvano nei giorni difficili. A Pompei, tra le ceneri, molte fuggiasche avevano con sé i loro preziosi e sacchetti di monete d’oro. Era la cosa più facile da portare. Era la più utile.
Mi sia concessa un’ultima notazione poiché parleremo di tutto questo al Festival del Classico. La stessa parola classico nasce a partire dalla divisione romana in classi di censo in cui la prima, quella più abbiente, faceva da padrona. Nel mondo contemporaneo, parafrasando T.S. Eliot, il classico è ciò che in grado di ricongiungere passato e presente. A Roma i classici erano i cittadini e le cittadine della prima classe censuaria, quelli che la lex Voconia colpiva direttamente imponendo loro di scegliere un uomo come erede. Molto più tardi Aulo Gellio, trasfigurando l’antico lessico economico, chiamò classici gli autori più ricchi di parole. Ma per fortuna il tempo ha fatto dimenticare l’origine economica del termine: oggi classici non sono più gli appartenenti alla prima classe di censo, ma opere dell’ingegno in grado rinnovare sempre il loro significato. E questa metamorfosi linguistica dimostra come una società può riscattare un’antica disuguaglianza sostituendo il valore economico con il valore etico.
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