martedì 9 gennaio 2024
L’allievo e successore ricorda il filosofo scomparso 20 anni fa: «La storia è ambigua, diceva, ma se ne trova il senso se si resta fedeli alla democrazia»
Norberto Bobbio (1909-2004)

Norberto Bobbio (1909-2004) - Archivio Avvenire

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«Sono passati vent’anni, ma per me, per gli amici che hanno imparato da Bobbio, sono vent’anni trascorsi, non passati. Il suo insegnamento è lì, lo sentiamo. E ci manca, quanto ci manca!». Michelangelo Bovero ricorda il suo maestro, che gli aveva proibito di chiamarlo maestro, scomparso il 9 gennaio 2004. Di Norberto Bobbio è stato assiduo allievo, dal 1968, all’Università di Torino, poi giovanissimo assistente, subito dopo la laurea nel ’72, e per quarant’anni successore nella cattedra di Filosofia politica, dal ’79 fino alla pensione.

Che tipo di professore era Bobbio?

«Un maestro della chiarezza, non soltanto per l’eloquio – anche perché non parlava come un libro stampato - ma per il risultato, che era veramente fuori dell’ordinario. Faceva vivere la cultura, rendeva evidente a tutti l’importanza dei classici per capire il nostro mondo. Dentro la lettura di Aristotele, per esempio, c’erano tutte le domande e le contro-domande sul fascismo».

Nell’insegnamento come negli scritti applicava il famoso “metodo Bobbio”: di che cosa si tratta?

«È il modo di procedere analitico per giungere a conclusioni razionali. Innanzitutto, arte della distinzione. Distinguere e comparare: concetti affini, diversi, opposti. Lo esprimeva con una formula di Pareto, “l’istinto delle combinazioni”, che significa accostare nozioni e fenomeni apparentemente eterogenei e trovare le relazioni: ratio come relatio. C’è un’ispirazione cartesiana: scomposizione e ricostruzione. La ricostruzione esige priorità dell’analisi sulla sintesi. Il suo modo di procedere è aderente alla natura stessa dei concetti, alla loro problematicità intrinseca. Libertà: di chi? da chi? da che cosa? Eguaglianza: tra chi? in che cosa?».

Dal metodo ai contenuti.

«Bobbio è stato, è, tra i massimi esponenti del positivismo giuridico e del realismo politico. Sempre, però, in modo problematico. Il mondo delle regole giuridiche è autonomo dalla morale: il diritto ingiusto è diritto. Ma non per questo, in quanto diritto, impone obbedienza: il diritto ingiusto non deve essere obbedito. Il problema della giustificazione delle regole a cui siamo sottoposti non può non appellarsi a principi di valore che trascendono il mondo delle norme giuridiche. Uno dei suoi primi allievi, Sergio Cotta, aveva coniato per lui la definizione “positivista inquieto”. Ma era anche un “realista insoddisfatto”. Che cos’è il realismo politico? È guardare in faccia la realtà. La politica è Schlachtbank, il bancone del macellaio, diceva Hegel. Ma il realista che non si fa circuire dai sogni dell’utopia e dagli inganni dell’ideologia, il realista Bobbio non è come la maggior parte dei realisti accompagnati da una sorta di cinico compiacimento. No, Bobbio non si ferma alla pura e semplice diagnosi del male irrimediabile: insegue i rimedi. E qui lo scienziato, il teorico del mondo delle regole (il diritto) e del mondo del potere (la politica) diventa ideologo nel senso migliore del termine, cioè diventa un intellettuale. Lo studioso ti dà insegnamenti, l’intellettuale ti dà messaggi, indirizzi per l’azione. In lui lo studioso e l’intellettuale hanno sempre interagito, ma senza condizionamenti distorsivi».

E quali erano i rimedi, per un “uomo del dubbio”? Come uscire dallo stallo?

«La storia è ambigua, diceva, tuttavia emergono delle evidenze dalla considerazione del passato: la grande svolta della modernità, che è l’affermazione della priorità dei diritti sui doveri. Molto più difficile è risolvere i dubbi guardando al futuro, non alla storia che ci ha portato fin qui, ma alla storia che si farà. La sua risposta è che un senso alla storia si può dare rimanendo fedeli alla rotta indicata dalle stelle polari – i tre grandi valori: libertà, eguaglianza e giustizia; e i tre grandi ideali: diritti, democrazia e pace».

A tutti gli effetti “uomo del ’900”, Bobbio ragionava in termini di affidamento alle risorse della politica, nel senso alto del termine. Come vivrebbe oggi gli anni dell’antipolitica?

«Sì, la politica è stata costretta a abdicare dall’economia, ha ceduto all’imperativo di privatizzare tutto, a partire dal potere. Bobbio non ha visto questo? Certo che l’ha visto! Nel 1981 – Reagan appena arrivato alla Casa Bianca, la Thatcher al potere da due anni – in uno scritto intitolato Liberalismo vecchio e nuovo faceva i conti, prima di molti altri, con i neoliberali, con la Scuola di Chicago. Guardate, diceva, il liberalismo è quella grande idea da cui è nato il mondo moderno, ma rinasce in tante forme, ora come il principale nemico della democrazia: l’autodeterminazione deve essere messa sotto tutela, bisogna esautorare i parlamenti... “L’insidia è grave”, concludeva».

Bobbio si è anche molto occupato dei temi della pace e della guerra. Come avrebbe reagito di fronte alla guerra in Ucraina?

«Domanda difficile: non lo so. Bobbio negli anni ‘60 arriva al problema della guerra interessandosi del pacifismo alla Russell e quindi della “coscienza atomica”. La sua tesi centrale è: di fronte alla guerra atomica nessuna delle tradizionali giustificazioni della guerra regge. Ma, come è venuto fuori durante il conflitto del Golfo del ’91, per lui – pacifista, nonviolento – la nonviolenza ha comunque un limite, in quanto può favorire i violenti. Perché Bobbio ha sempre avuto in mente il patto di Monaco del 1938. Sono certo che oggi non cadrebbe nella trappola della “Russia minaccia per l’Occidente”. Dopodiché, penso che avrebbe avuto molte perplessità».

Erano proverbiali le sue “furie”. Ma c’era anche l’altro aspetto, quello opposto…

«C’era il Bobbio che nelle pause di un convegno, durante il Mondiale dell’82, tifava moderatamente per l’Italia, così come era un tifo “mite” quello per la Juventus, retaggio degli anni liceali al D’Azeglio. Di sé diceva: “Io sono un cerino, mi accendo subito ma subito mi spengo”. Una delle sue caratteristiche era stemperare le emozioni scrivendo epigrammi. Un mattino, in uno dei nostri seminari annuali, avevamo sentito le relazioni di giovani adepti della scolastica rawlsiana, coté matematizzante, che pretendevano di parlare in questo modo apodittico di etica pubblica e anche privata. A pranzo Bobbio posa sul tavolo un bigliettino, ridacchia, lo legge: “Con questo mio modello matematico / risulta dimostrato in modo critico / che non si può chiamare uomo etico / chi toglie la stampella al paralitico”».

Vent’anni dopo, che cosa resta?

«Mi manca, ci manca. Ma chi lo rilegge? Mi piacerebbe che qualcuno pensasse di promuovere un ciclo di “Letture Bobbio”, per far vedere quanto è utile. Su tutte le questioni essenziali io torno a riprendere i suoi testi. Però, attenzione: io non sono il pupillo del professore. Perché il maestro accetta l’allievo, ma è l’allievo che sceglie di seguire quel maestro. Io ho la fortuna di dire: sono responsabile di aver scelto di seguire Bobbio».

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