sabato 13 giugno 2020
Per gli 80 anni del cantautore modenese, il suo storico arrangiatore e tastierista racconta il mezzo secolo dal primo album suonato insieme: «Con il nostro gruppo è diventato un mito»
Francesco Guccini e i suoi Musici (a sinistra, Vince Tempera) in studio per l’album 'Tra la via Emilia e il West' del 1984

Francesco Guccini e i suoi Musici (a sinistra, Vince Tempera) in studio per l’album 'Tra la via Emilia e il West' del 1984 - Foto di Pino Callà

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Ottant’anni più cinquanta. L’età di Guccini e quella del sodalizio con i suoi Musici. Le personali candeline Francesco smetterà di spegnerle domani visto che questo suo fatidico 14 giugno è cominciato già da diversi giorni tra festeggiamenti online e regali letterari, con l’inserimento nella cinquina del premio Campiello del suo Tralummescuro - Ballata per un paese al tramonto. Sono i libri, del resto, le sue attuali consolazioni da quando nel 2012 ha salutato la musica con l’album di inediti L’ultima Thule dopo aver dato l’addio l’anno prima ai concerti. E il capostipite dei suoi sodali sul palcoscenico del Belpaese gucciniano è il 74enne tastierista Vince Tempera che con Ares Tavolazzi (basso) ed Ellade Bandini (batteria) aveva fondato sul finire degli anni Sessanta il gruppo dei Pleasure Machine, nome quanto mai lontano dall’umore cantautorale dell’uomo di Pàvana.

Era il 1970 quando faceva capolino nei negozi L’isola non trovata, il terzo album di Guccini e il primo davvero suonato. Una rivoluzione rispetto ai precedenti Folk Beat n. 1 e Due anni dopo, con lui e Deborah Kooperman alle chitarre acustiche. «Io però con Guccini iniziai a collaborare già nell’estate del 1968 con l’album I Nomadi per cui aveva scritto alcune canzoni e delle cover come traduttore di testi» racconta Tempera, che sui palcoscenici del “maestrone” ha portato persino le note del suo best seller da cinque milioni di copie, la sigla del cartoon del 1978 Atlas Ufo Robot.

Il precoce Tempera faceva l’arrangiatore per La Voce del Padrone che produceva il gruppo di Beppe Carletti e Augusto Daolio che di Guccini avevano lanciato Dio è morto e Noi non ci saremo. «Eppure alcuni dei primi testi e cover di Guccini furono bocciate perché non avevano la musicalità dell’originale inglese» svela il compositore milanese che conobbe Francesco, ancora senza barba, nell’agosto del 1968. «Erano le tre del pomeriggio, il sole picchiava come un martello e io dovevo incontrarmi alla stazione di Modena con Guccini e con lui andare a Novellara dai Nomadi. “Dove hai la macchina?” mi disse Francesco. Ma io arrivavo in treno da Salerno, dove ero in tour con Carmen Villani. Chiamammo col telefono a gettoni il produttore Corrado Bacchelli, un avvocato modenese che scovava gli artisti che si radunavano al Bar Italia dove andava anche Guccini. Ci fece venire a prendere e andammo con il furgoncino degli strumenti nella campagna di Novellara. La sala prove era una stalla della cascina di Beppe Carletti».

Fu Tempera, che frattanto aveva conosciuto i ferraresi Bandini e Tavolazzi, a “salvare” poco dopo Guccini dal licenziamento. «Stavo lavorando come arrangiatore per Rocky Roberts e Wess quando vengo chiamato da Giampiero Scussel (jazzista e trombettista), che era passato dalla Durium a La Voce del Padrone come direttore artistico e doveva fare piazza pulita dei vecchi contratti decidendo chi tenere e chi no. Se i Nomadi vendevano, Guccini non era da 45 giri e la sua voce era un po’ rigida, intonata sì ma senza particolari sfumature. Io però dissi a Scussel che era l’autore di alcuni loro brani e così non venne scartato».

La Voce del Padrone poco dopo passò alla Emi Music e Guccini è a tutt’oggi l’artista italiano con la più lunga fedeltà discografica. «Francesco è un abitudinario e tendenzialmente pigro, se si trova bene in una situazione non cambia. Il rinnovo di quel contratto fece la fortuna della Emi – sottolinea Tempera –, ma anche di Guccini, perché in quel momento non interessava a nessun discografico e avrebbe corso il rischio di sparire dalla circolazione. Incredibile, no?».

Il 1970 segna la svolta per Guccini e per il primo nucleo dei suoi Musici, a cui si aggiungeranno negli anni Juan Carlos “Flaco” Biondini (chitarra), Antonio Marangolo (Sax), Pierluigi Mingotti (basso elettrico) e Ivano Zanotti (batteria). «La cosa difficile di quel primo disco insieme – ricorda Tempera – era far suonare Guccini con altri perché non era molto abituato alla ritmica di basso e batteria. Alla fine L’isola non trovata (a cui presero parte anche Franco Mussida della Pfm e Maurizio Vandelli dell’Equipe 84 ndr) vendette quasi 15mila copie, un discreto riscontro. C’erano grandi pezzi, con uno stile musicale quasi prog. Quel disco fu il decollo di Francesco».

Il genio della parola in versi e accordi aveva preso il volo, per confermarsi con l’album successivo, Radici, il suo “manifesto” artistico. «L’unico brano che non sono mai davvero riuscito ad arrangiare è La locomotiva – confessa Tempera, artefice musicale anche di quel loro secondo 33 giri – . Del resto ha una sua forza intrinseca proprio in questa incalzante successione di strofe, fino all’esplosione finale. L’unica soluzione musicale era così cambiare tonalità con il susseguirsi delle strofe, per sottolinearne il crescendo. La seconda soluzione sull’arrangiamento è stata aggiungere strumenti per dare sempre più spinta e tensione ritmica. A conferma di quanto Guccini sia sempre stato più interessato alla struttura dei brani partendo dalla potenza del testo. Per lui è importante la forma poetica, musicalmente invece non ricercava particolari soluzioni armoniche: una dozzina di accordi per lui erano sufficienti. In questo era più simile a Gaber che veniva dal rock che a Dalla, che veniva invece dal jazz».

Nella combriccola che si trovava a Bologna all’osteria, da Vito, Dalla ci andava a bere e cantare, ma era un po’ insofferente rispetto a quelle leggendarie nottate di Guccini, Renzo Cremonini e Bonvi a base di rosso e briscola o scopone. «Solo con le carte in mano, oltre che nella difesa dei suoi testi letterari, Francesco era combattivo – svela Tempera –. Altrimenti rifuggiva da ogni forma di trattativa, lo imbarazzava parlare di contratti discografici: a discuterli ci mandava il commercialista. Francesco ha un’amarezza di fondo, una specie di innata delusione. Di chi conosce troppo bene l’animo umano».

Un duro colpo per lui, ricorda l’amico, fu la morte di Renzo Fantini, il suo storico manager (e di Paolo Conte). «Erano legatissimi, più che fratelli. Fantini era bolognese e il modenese Guccini era diventato anch’egli sempre più bolognese. Quando è morto, dieci anni fa, è come se gli fosse scomparso un mondo a cui lui era sopravvissuto. Anche per questo ha finito col ritirarsi sempre più a Pàvana e non scrive più canzoni. Dal mondo di adesso, del resto, non riceve particolari stimoli. Ma io Francesco l’ho visto piangere sul palco. Si commuoveva quando cantava Van Loon. L’abbiamo suonata per due anni, ma poi ha dovuto smettere. Una canzone in cui parla di suo padre che leggeva i libri di quel divulgatore popolare degli anni Trenta, punto di riferimento di chi non aveva potuto studiare. Come il papà di Guccini, anche mio padre è stato in Russia e non mi ha mai raccontato nulla. Un’altra cosa che per cinquant’anni mi ha unito a Francesco».

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