martedì 25 agosto 2015
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Nata a Memphis nel Tennessee, Dee Dee Bridgewater (vero nome Denise Garrett), ha iniziato a cantare al liceo col padre, trombettista. In Italia la si ricorda prima a Sanremo ’90 con i Pooh e terza nel ’91 con Masini (cantando contro la droga); ma queste due collaborazioni non sono che il segno di una grandezza versatile quanto generosa, nella vicenda di quella che è una delle principali cantanti jazz del secondo Novecento, forse la migliore in assoluto. Nella sua discografia Victim of love con Ray Charles e album dedicati a Duke Ellington, Ella Fitzgerald, Gershwin e Porter, la Francia, Billie Holiday: che ha anche interpretato a teatro. Senza scordare come la Bridgewater abbia lavorato nel jazz a cinque stelle fra Thad Jones, Max Roach, Pharoah Sanders e i vari Davis, Gillespie, Hancock. Ha vinto Grammy ma anche premi per la recitazione, aiuta e lancia giovani talenti ed è ambasciatrice della FAO dal ’99. Dee Dee’s Feathers è uscito negli Usa solo ad agosto, volutamente nel preciso mese del decennale di Katrina, per denunciare un poco anche gli errori umani che aggravarono il bilancio dell’uragano: il tour del disco toccherà a settembre Parigi, Norvegia e Olanda, per poi spostarsi verso New York.«Sono stata talmente fortunata… ». Dee Dee Bridgewater rispondeva così, con pudore, a chi le chiedeva il perché di un disco a tema dedicato a New Orleans nel decennale dell’uragano Katrina. In effetti la 65enne del Tennessee avrebbe potuto dedicarsi a qualunque altro progetto, stante una carriera che l’ha vista lavorare con i più grandi: vi bastino Dizzy Gillespie, Miles Davis, Sonny Rollins, Stanley Clarke, Chick Corea, e su su fino a Ray Charles. Però sin da ragazza Dee Dee non ha mai guardato alle apparenze. Si è sempre sentita “cantante per musicisti” e perciò pronta a passare dalle commedie musicali al jazz più puro, dalle orchestre ai gruppi ristretti, dal Festival di Sanremo (che ha vinto nel ’90 con Uomini soli, il capolavoro dei Pooh) a Billie Holiday cui ha dato corpo e voce in più di una occasione fra teatro e dischi. Stavolta sentiva il bisogno di importare nella propria voce l’amore. Amore per New Orleans, amore – come dice il libretto dell’album dedicato alla città – «che porta alla rinascita dopo il dolore, e fa condividere valori assoluti anche con chi la città e la sua tragedia non le ha conosciute». Era l’agosto 2005, quando l’uragano Katrina tracciava una strada di terrore e sangue fra Bahamas, Cuba, Florida, Alabama e appunto Louisiana e New Orleans. Con cento miliardi di dollari di danni e un agghiacciante mille e ottocento quale numero delle vittime. Fra le oltre settecento della sola New Orleans, quasi interamente allagata e in buona parte distrutta, ci fu anche il padre di Irvin Mayfield, compositore, trombettista e leader della New Orleans Jazz Orchestra con cui Dee Dee Bridgewater ora ha voluto cantare la città dieci anni dopo. Col medesimo pudore cui si accennava sopra, giacché il titolo del disco è Dee Dee’s feathers, le piume di Dee Dee, simbolo di libertà e leggerezza, di emozioni e valori da tenere fra i capelli al posto di chissà quali trucchi per «restare sempre accesi» davanti alla vita; e volendo ripassare l’intera storia della città da tre secoli fa a oggi, con tanto di inediti pensati per l’occasione. Dee Dee’s feathers, uscito in primavera, è uno dei più recenti concept nella storia della musica nonché uno dei più importanti di sempre per il jazz, anche nella misura in cui dimostra ciò che Dee Dee definisce “guarigione” della musica stessa di New Orleans. «Io e Mayfield – racconta la Bridgewater – ci siamo conosciuti per un evento natalizio a Minneapolis; poi ci siamo ritrovati nella sua New Orleans e in quella città ho cominciato a lavorare, anche cercando nuovi talenti tramite workshop. Poi, all’improvviso, è nato il disco. Ci si frequentava da sei anni, ma non è stato pianificato. È nato quando guardandoci negli occhi abbiamo capito che doveva nascere». E così, ecco New Orleans riletta in modo talmente poliedrico che solo perché trattasi della Bridgewater, quasi non ci si accorge della complessità di affrontare bene e con intelligenza interpretativa materiale tanto disparato: inni classici, l’Africa riportata nell’America di oggi, gli standard di Harry Connick Jr (nativo di New Orleans e più che contemporaneo, essendo del 1967) come quelli di Hoagy Carmichael (autore di New Orleans e rappresentante del jazz di primo Novecento). Poi il tradizionale Saint James infirmary, brano di disperazione e morte innocente, la canzone che dà il titolo al Cd narrando la voglia di non arrendersi anche quando restano solo indizi (piume) di ciò che prima era concreto e vitale, i brani di Mayfield che cantano una città incastrata, e perciò a rischio, fra il delta del Mississippi e uno dei grandi laghi dell’interno Usa, il Pontchartrain. Il tutto condito da un voluto canto di gioia, anzi entusiasmo: quella What a wonderful world resa celeberrima da Louis Armstrong. «Ero a New Orleans nel bel mezzo di un altro uragano, quando abbiamo iniziato a lavorare al Cd», racconta Dee Dee. «Volevo che Irvin mi introducesse alla musica della sua terra, perché l’intento originario era solo di fare un disco-omaggio per il mercato di New Orleans. È stato solo dopo che ci siamo riascoltati, che abbiamo contattato la Sony ed è nato un disco per il mondo. È stata quasi un’esperienza spirituale, tutto è arrivato da solo o quasi». Così Dee Dee’s feathers, concept certo voluto ma non pensato per il grande pubblico, ora è uno dei principali album a tema della storia: da essa parte, guardando a una delle tragedie più grandi degli ultimi anni per farla tenere a mente, ed essa sublima con sguardo sereno. «Sì, perché questo disco celebra la vita. In sé e di una comunità capace di risollevarsi e cominciare da capo, senza mai dimenticare quanto aiuti la musica a farlo. Ma a New Orleans non possono scordarlo: il jazz è nato lì». Come la cosiddetta “second line”, seconda fila, delle parate a suon di brass band del carnevale di laggiù, ripresa come forma in alcuni punti del Cd e fatta di gioia e danza: “second line” quintessenza della tradizione di New Orleans nonché, e non è certo un caso pensando a idee e contenuti di Dee Dee’s feathers, «funerale jazz senza il morto». Perché la vita è gioia quanto dolore, il jazz lo sa e lo dice in musica: da pochi mesi in qua anche con l’ennesimo grande concept album della storia delle sette note, un album, questo, grande anche per la sua umanità.

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