giovedì 11 giugno 2015
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Proponiamo ampi stralci dell’intervento che il teologo Giacomo Canobbio – direttore dell’Accademia cattolica di Brescia e delegato vescovile per la Pastorale della cultura, nonché docente di Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale – offre sull’ultimo numero della rivista “Dialoghi”. Il suo contributo si inscrive nel dossier “Il naturalismo in questione”, curato da Andrea Aguti e che comprende anche interventi di Luca Grion, Andrea Lavazza, Antonio Da Re, Carlo Cirotto, Mario De Caro e Cataldo Zuccaro. Sul trimestrale promosso dall’Azione Cattolica e diretto da Piergiorgio Grassi il primo piano propone invece gli scritti di Mario Bruti sulla “società a-sistematica” e di Leonardo Becchetti su “Una nuova rotta per l’Europa”. Il “profilo” di questo numero è dedicato a don Emilio Guano, “il paladino dei laici cattolici”.La teologia ha sempre dovuto fare i conti con gli orientamenti culturali: da essi ha mutuato linguaggi mediante i quali, una volta transignificati, cercava di illustrare e difendere il Vangelo e con esso la visione della persona umana in esso proposta. Ciò era possibile perché, se non c’era condivisione totale delle visioni, c’era almeno la condivisione di processi: si riconosceva da (quasi) tutti che nella ricerca del fondamento della realtà non ci si potesse limitare alla constatazione; si doveva compiere un’operazione di trascendimento rispetto al fattuale. Oggi si mette in discussione la possibilità della ricerca di un fondamento altro dei fenomeni: tutto sarebbe spiegabile mediante altri fenomeni e le questioni circa Dio, l’anima, il destino umano sembra debbano essere relegate nell’epoca dell’infanzia dell’umanità. Pare che l’ombra di Auguste Comte copra sempre di più la mentalità comune, segnata dal ritorno del naturalismo. Come scriveva il fisico Carlo Rovelli su “Il Sole 24 ore” del 17 dicembre 2014, il naturalismo può essere caratterizzato «come l’atteggiamento filosofico di chi ritiene che tutti i fatti che esistono possano essere indagati dalle scienze naturali, e noi stessi siamo parte della natura. Non è naturalista chi assume realtà trascendenti che possiamo conoscere solo attraverso forme non indagabili dal pensiero scientifico». Rovelli non nega la possibilità che si possa indagare la realtà anche con altre metodiche, ma presentando l’opera di Huw Price Naturalism without mirrors  denuncia la refrattarietà che nel nostro Paese si manterrebbe nei confronti del naturalismo. Tale refrattarietà si manifesterebbe in molteplici forme: «La nostra scuola è strutturata dall’idealismo crociano, i nostri filosofi adorano Heidegger, la nostra stampa e televisione, con poche eccezioni, fanno la peggior divulgazione scientifica del pianeta – si pensi a Voyager –, il nostro Parlamento non eccelle per cultura scientifica. Siamo l’unico Paese dove scuole e tribunali espongono simboli religiosi, e l’unico, oltre forse all’Iran, dove i telegiornali raccontano ogni giorno cosa ha detto il leader religioso locale». Il lamento del fisico, piuttosto frettoloso, mette in evidenza un problema gnoseologico: come leggere la realtà, in particolare quella umana? La provocazione che viene alla teologia soprattutto dalle neuroscienze non può essere elusa: se si ritiene di poter spiegare tutto ciò che distingue gli umani dagli altri animali attraverso la maggior complessità del sistema nervoso dei primi, la teologia non può con sufficienza dichiarare che essa si pone su un altro piano, quello della rivelazione. Il naturalismo suppone, infatti, di destituire di valore anche tutto ciò che rimanda a una rivelazione: anche le esperienze religiose sarebbero da attribuire a funzioni particolari del cervello, che sarebbe portato a credere cose che non trovano riscontro nella scienza. Prima di atteggiarsi a sapere ultimo, la teologia potrebbe ricordarsi che i risultati dei saperi scientifici non sono da ignorare. Se l’oggetto del sapere è l’umano, nella comprensione di esso si dovrà prestare attenzione alla complessità che lo connota e non si potranno a priori inghiottire tutti gli aspetti in un unico modello. Il fenomeno umano non esiste senza un substrato biofisiologico che lo accomuna agli altri animali o più in generale alla “natura”. Ma la differenza con questi può essere attribuita solo a una maggior complessità del cervello umano? Pur ammettendo questo, si potrà sostenere che quando gli umani si aprono alla trascendenza non fanno altro che subire  processi neuronali? E perché questi provocano un orientamento alla trascendenza? Solo per un condizionamento culturale? Se così fosse perché si è prodotto? Solo perché gli umani non riescono a stare nel mondo percependolo come limitato? E su quale base lo percepiscono come limitato e quindi si orientano all’illimitato? Indiscutibile che anche questi interrogativi possono essere posti perché il cervello con tutte le connessioni che lo fanno vivere funziona. Ma questo non significa che sia il funzionamento del cervello a produrre gli interrogativi. Sulla scorta degli interrogativi richiamati la teologia può offrire la sua visione originale del fenomeno umano senza dimenticare quanto i saperi scientifici permettono di raggiungere. E lo può fare attingendo alla descrizione dell’umano che la Bibbia presenta. Va precisato che ci si riferisce alla Bibbia non per la sua autorità per la teologia, bensì perché descrive l’esperienza dell’umano che trova riscontro anche oggi. I termini che abitualmente vengo usati, nefesh e basar, non pretendono certamente di descrivere i processi biologici degli umani; possono tuttavia indicare esperienze che ogni essere umano vive: da una parte la protensione con tutta la propria persona verso l’infinito, dalla Bibbia identificato con Dio, dall’altra la constatazione della propria fragilità e quindi mortalità, dalla quale solo la relazione con Dio può ultimamente strappare. Si tratta di esperienze da interpretare, tenendo conto però che non si tratta di esperienze simmetriche: in faccia alla fragilità si erge la protensione, che diventa frequentemente invocazione, la quale si connota come germinale vittoria sulla fragilità. Se dette esperienze fossero frutto del cervello e basta, ci si dovrebbe domandare perché in alcune persone si dia esplicita invocazione e in altre no. Si potrebbe rispondere che non tutti i cervelli sono uguali. Ineccepibile! Se però si conclude in tal modo, si dovrebbe altresì concludere che i risultati degli esperimenti che attesterebbero la spiegazione biologica del pensiero – e della libertà – non potrebbero essere universalizzati: sarebbero da riconoscere solo nelle persone sottoposte a quegli esperimenti. E delle altre non si potrebbe dire alcunché, appunto perché di esse non si conosce il funzionamento del particolare  cervello. Cadrebbe così la pretesa universalizzante della scienza, la quale procede inevitabilmente con parametri statistici, i quali devono ammettere margini di variazione. Se la base sulla quale ci si confronta è l’esperienza, pare indiscutibile che ogni persona umana percepisca una tensione tra l’autotrascendimento e la difficoltà a realizzarlo. Certo, benché in misura minore, tale tensione si riscontra anche negli animali, ma pare che la diversa misura denoti un salto “ontologico” anche solo perché gli umani sono capaci di dare parola a tale tensione. Solo perché il loro cervello è più sviluppato? Ma perché non tutti gli umani danno parola allo stesso modo alla tensione? Dipende dalla cultura? E perché persone che vivono nella medesima cultura e hanno lo stesso livello di scolarizzazione danno parola in modo diverso? Per le relazioni diverse che hanno intessuto? E perché hanno intessuto diverse relazioni? Solo perché si sono trovate in circostanze diverse? Il grappolo di interrogativi ha solo lo scopo di mostrare che il riduzionismo naturalistico non è in grado di spiegare il fenomeno dell’umano nella sua complessità. Se si vuol dire l’umano, nessuna forma di sapere è sufficiente. Anche la teologia può sedersi alla tavola dei saperi e dire il suo parere, senza complesso di inferiorità. Anzi, con una pretesa: salvaguardare l’originalità singolare dell’umano nell’universo, come il Salmo 8 ricorda. Se all’umano si nega l’apertura alla trascendenza, si corre il rischio di lasciarlo in mano alla tecnica, che è meno innocente di quanto a volte si voglia far credere.
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