sabato 17 agosto 2013
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Quando si parla di Gruppo 63 e din­torni, Cesare Ca­valleri non ha esi­tazioni: «Per me il poeta più importante di quella stagione rimane Antonio Porta – dice –. L’avevo conosciuto prima di sa­pere della sua attività let­teraria: il suo vero nome, com’è noto, era Leo Pao­lazzi e apparteneva a una famiglia della buona bor­ghesia imprenditoriale. Condizione comune ad altri autori della Neoa­vanguardia, questa di provenire da un contesto facoltoso. Se non altro, così veniva liquidato il mito del poeta derelitto. Nei primi anni Sessanta, dunque, ero andato a trovare questo Leo Pao­lazzi con l’intento di ven­dergli un po’ di libri delle Edizioni Ares. Poco più tardi sono venuti i Novis­simi e quel piccolo libro di Porta dal formato qua­drato, Aprire, pubblicato da Scheiwiller nel ’64. Bellissimo, una vera sco­perta ». Da allora è passa­to più di mezzo secolo. Dell’Ares, e della rivista “Studi Cattolici”, Cavalle­ri è diventato direttore, ma non ha mai smesso di leggere e scandagliare i testi della Neoavanguar­dia. Predilezione curiosa, in un cattolico severo co­me lui. «Ma questo non c’entra nulla – puntualiz­za con il solito gusto del paradosso –. Del resto, il ruolo dei cattolici nella letteratura del Novecento è stato talmente margi­nale... ».
Insomma, nel ’63 non c’era scelta: quelli del Gruppo andavano letti per forza?
«Andavano lette, come sempre, le singole opere. Ancora oggi per me il va­lore della Neoavanguar­dia sta nelle personalità che si sono formate al suo interno. Non era una realtà omogenea, come non lo erano state le a­vanguardie storiche o le riviste d’inizio secolo. Possiamo parlare, sem­mai, di tratti di strada che gli scrittori percorro­no insieme, per afferma­re ciascuno la sua indivi­dualità ».
 
E questa strada comune in che direzione andava?
«Verso lo svecchiamento del modo di fare poesia. In questo il ruolo della Neovanguardia è stato fondamentale, non di­versamente da come era accaduto con il Futuri­smo, con Ungaretti, con l’Ermetismo. I Novissimi e i loro compagni di stra­da si impegnavano per­ché la letteratura aderis­se alla nuova civiltà delle macchine e lo facevano adoperando gli strumen­ti dello strutturalismo. È stata la forza del Gruppo 63, ma anche il suo limi­te. L’insistenza sul carat­tere formale, statistico e combinatorio dell’opera ha finito per esaurirsi in se stesso. Concentrarsi e­sclusivamente sulle co­stanti che agiscono nella struttura del testo è un po’ come fermarsi al fat­to che in ogni composi­zione musicale so­no presenti le stesse sette note. Questo è evidente, quello che conta è l’abilità con cui autori diversi ci danno musiche di­verse, poesie e ro­manzi diversi».
Una rivincita della tradizione, dun­que?
«La mia impressio­ne è che, nella loro volontà di imporre pole­micamente il nuovo, gli scrittori della Neoavan­guardia abbiano scelto spesso i bersagli sbaglia­ti. Penso ai giudizi inge­nerosi su Bassani e Cas­sola, ma anche alle accu­se rivolte a Pasolini, che tra l’altro in quegli stessi anni stava dimostrando tutta la sua grandezza di poeta».
Come mai questa in­comprensione?
«La Neoavanguardia par­tiva da un atteggiamen­to, di per sé salutare, di negazione rispetto al passato. Saper dire “no” è importante, anche in let­teratura. Ma non si può dire sempre e soltanto “no”. Ci sono momenti in cui la critica deve essere distruttiva, a patto che sulle macerie causate dalla critica arrivi qual­cun altro in grado di co­struire. A mancare è stata proprio questa seconda fase».
La fase delle opere?
«Bisogna avere il corag­gio di ammettere che, purtroppo, ne rimango­no poche. Tutta la prima parte della produzione di Porta, appunto, e non poche prove di Balestri­ni. Ma Giuliani e Sangui­neti restano più critici che poeti. Coltissimi e a volte divertentissimi, in­capaci però di lasciare traccia. In altri casi, poi, la statura individuale era già talmente robusta da prescindere dall’apparte­nenza al gruppo. Un poe­ta come Pagliarani, un prosatore come Arbasi­no, un intellettuale come Eco hanno più dato alla Neoavanguardia rispetto a quanto abbiano ricevu­to. La vera funzione fu, semmai, verso l’esterno».
In che senso?
«Un libro straordinario come Per il battesimo dei nostri frammenti di Ma­rio Luzi sarebbe impen­sabile senza lo choc dei Novissimi. E lo stesso va­le per l’ultimo Montale. Dal tramonto dell’Erme­tismo in avanti, la poesia italiana è fortemente in­fluenzata dalla Neoavan­guardia, con la quale tut­ti gli autori si sono dovuti confrontare, spesso im­parando molto. Nella prospettiva di questa scossa, peraltro più che positiva, credo che non si possa non parlare di un “prima” e di un “dopo” il Gruppo 63».
Un’esperienza simile sarebbe riproponibile oggi?
«Erano anni di grande fervore, non soltanto in letteratura, ma anche nelle arti visive, secondo quella tendenza alla glo­balità che i movimenti d’avanguardia hanno sempre espresso a parti­re dal Futurismo. E c’era l’aspetto della militanza politica, che in genere non giova alla letteratu­ra. Più che altro, c’era u­na rete di relazioni per­sonali che oggi è sostitu­ta dalla virtualità di In­ternet: ci si illude di es­sere in contatto con un gran numero di persone e proprio questo impe­disce di costituirsi in gruppo».
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