mercoledì 14 luglio 2010
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È come se quella pallottola cieca e vagante – quella della morte che viene senza preavviso – avesse colpito l’amico più caro accanto a noi, quello col quale dividevamo spalla a spalla la trincea, quello che vedeva più lontano e più chiaramente di noi; è come sentirsi vivi al posto di un altro, un altro che era l’amico e anche il faro, uno per cui ci saremmo esposti ai venti e alle tempeste per seguirlo ed essere all’altezza della sua profezia. È così che si leggono certe pagine che Alfonso Gatto scrisse negli anni Trenta ricordando Edoardo Persico («mi sembrava terribile che tutti gli uomini vivessero ingiusti al suo posto»: tutti gli uomini, dunque, anche se stesso). Per questo e opportunamente nelle pagine introduttive agli Scritti di architettura di Alfonso Gatto, editi ora da Aragno (pagine 236, euro 20), Giuseppe Lupo delinea una sorta di continuità del poeta italiano con la polemica e l’impegno etico di Persico, quando, dopo la morte di quest’ultimo nel 1936 (aveva solo 35 anni, condirettore con Giuseppe Pagano di «Casabella», in realtà ne fu il vero innovatore sia grafico che concettuale), Gatto firmò mensilmente alcune cronache sulle pagine della rivista fino al novembre 1938.Primo in Italia a capire davvero il nuovo linguaggio dell’architettura, primo a riconoscere la grandezza assoluta di Wright (anche su Le Corbusier, perché capace di dare all’architettura il suo massimo valore spaziale – metafora della "libertà dello spirito" in atto), Persico fu per molti, all’epoca, una specie di veggente. Napoletano, interlocutore per un certo periodo di Piero Gobetti, amico di Lionello Venturi, fantomatico viaggiatore nelle terre d’Europa fino alla Russia (ma forse è soltanto leggenda), avido e intelligente consumatore della stampa straniera, cattolico e lettore di Maritain, crociano e poi critico di Croce, dotato di uno stile evocativo, ricco di sfumature letterarie, e di una vasta cultura, Persico fu davvero il profeta e il paladino di un gusto nuovo, senza cascami retorici, e per questo "naturalmente" contro il classicismo fascista. Già Lionello Venturi – citato anche dallo stesso Gatto nel 1947 – aveva descritto con precisione l’aura mistica e il magnetismo che emanava da Persico: «Sentivamo che la sua cultura era grandissima, anche se aveva assai poco di comune con la nostra. E con meraviglia ci accorgemmo che d’un volo, senza scomporsi, giungeva là ove noi s’arrivava lenti e affaticati». Dunque non a caso, raccogliendone il testimone, Gatto firmava il necrologio di Persico su «Casabella» ponendo in esergo questa sua frase: «Gli artisti debbono affrontare, oggi, il problema più spinoso della vita italiana: la capacità di credere a ideologie precise, e la volontà di condurre fino in fondo la lotta contro le pretese di una maggioranza "antimoderna"». Bellezza ed etica ricomposte nella categoria di gusto, contro il sentimento dell’«inaridire fatalmente la nostra vita in un problema di stile». Detto questo, è bene ricordare le costanti del discorso di Persico che vengono espresse da Gatto con piglio dialettico assai diverso da quello profetico e sintetico – universalistico, vien da dire – dell’amico scomparso: Europa contro lo sciovinismo imperante negli anni del regime; critica della retorica classicista; ricerca dei punti fermi di un nuovo linguaggio moderno: il primato di Wright (ovvero dell’architettura come «messaggio umano e non soltanto tecnico», scrive nel 1945 Gatto vergando la prefazione al volume Architettura organica del maestro americano). Leggendo questi scritti usciti sotto diverse testate o in libro fra il 1935 e il 1976, si sente che, rispetto al fuoriclasse che aveva capito prima di tutti dove stava andando l’architettura nuova – e questo veniva a Persico da una intrinseca vocazione artistica che lo vide compagno di viaggio dei Sei pittori di Torino prima, e poi lavorare con Nizzoli e altri, progettando anche alcuni spazi a Milano –, Gatto è piuttosto il gregario che difende il vantaggio prodotto da «un esame critico che fondò in Italia la proprietà di un linguaggio storico per l’architettura». In realtà, ciò che Persico ogni volta introduce con uno scarto geniale spostando un po’ più lateralmente lo sguardo sui problemi per poterne cogliere meglio il contrappunto concettuale, in Gatto diventa resistenza rispetto a un confine che è quello guadagnato dall’amico scomparso. Non c’è dunque una elaborazione di nuove mete, o uno sguardo che apre nuovi scenari come spesso accade nelle parole di Persico, che hanno la forza di uno slogan o un motto ideale, c’è la difesa di quel che fin lì è stato raggiunto, e anche una forte presa di posizione etica, per esempio contro la speculazione che, già nel dopoguerra, metteva le sue mani sull’Italia e anziché produrre una più adeguata misura dell’abitare depauperava quel poco di buono che sopravviveva. Scrive Gatto nel 1964: «Si moltiplica la proprietà, ma le case, assicurate al nostro nome, "nostre" non sono più: non sono fatte a nostra somiglianza, allineate già sul nascere dalla esteriorità con cui sembriamo esporle agli occhi, quasi preservandole dall’uso. Sono case neutrali, in ghingheri, senza sostanza». E oggi, purtroppo, non c’è nemmeno questa qualità esteriore. Leggendo si ha la sensazione che Gatto sia stato, negli anni, il custode di una "memoria"; non quella delle idee, ma quella degli uomini concreti che hanno cercato di mettere in pratica un nuovo verbo, salvati di fronte alla storia in qualche caso dal loro aver pagato di persona: Pagano, Terragni, Giolli, Labò, Rogers, Banfi. Esaltati e amati nell’aura luminosa lasciata dalla cometa, quella ideale di Persico, del quale oggi – purtroppo–  esiste in commercio solo un volume, incompleto, degli scritti, mentre ben poco si è fatto negli ultimi vent’anni per approfondirne la figura, a tratti anche misteriosa, di critico di rango europeo che fu una delle coscienze intellettuali più lucide del Ventennio.
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