
Un laboratorio ludico-didattico per bambini alla Casina di Raffaello in Villa Borghese, a Roma - Zètema Progetto Cultura
Pur non essendo iscritto a nessun social-media, mi ha sempre attratto un’espressione tipica di quel mondo. Per mettersi in contatto con qualcuno, per “frequentarlo”, è necessario “chiedergli (chiederle) l’amicizia”. Sembrerebbe auspicabile, in effetti, soprattutto in una società che sta tornando alla normalità nemmeno troppo banale della guerra. Ma si può “chiedere” l’amicizia? Si può “pretenderla”? Si può considerarla una “cosa” scambiabile, quasi una merce che si possa dare o ricevere? Giorgio Agamben ne dubita. In Amicizie (Einaudi, pagine 136, euro 15,00)la philia sfugge al concetto e alla forma rappresentativa. Non si “ha”un amico, come invece si possono avere 100 euro in tasca. Tanto meno si possono avere molti amici; non solo perché la tradizione filosofica (da Agostino a Nietzsche e oltre) ha sempre declinato l’amicizia al singolare (maschile), diffidando della molteplicità; soprattutto perché l’amicizia è una dimensione “trascendentale” dell’esistenza: indefinibile, inoggettivabile eppure ineliminabile. Questo, almeno, spiega nella “Postilla”, conferendo al rapporto amicale uno statuto privilegiato non solo in funzione dell’agire virtuoso, come voleva Aristotele, ma anche per la comprensione dell’essere in quanto tale (la quale cosa, suppongo, avrebbe lasciato perplesso il figlio di Nicomaco, pur chiamato a supporto).
Eppure nel corpo principale del testo si fa avanti una piccola pattuglia di amici in carne ed ossa: diciassette, per l’esattezza. Uomini e donne spesso assai noti, come Elsa Morante, Italo Calvino, Guy Debord o Pierre Klossowski; talvolta marginali, come Sandro Messi, uno studente di Agamben a Macerata, col cui ritratto (molto delicato) si chiudono le fila di questa piccola comunità. Forse non una “comunità che viene”, giacché si tratta per lo più di uomini ormai scomparsi, ma a suo modo esemplare. Da Elsa Morante il filosofo apprese «che la misura di ogni cosa non è né l’uomo né la sofferenza, ma il senso della realtà»; ed è bello che il capitolo si concluda con un «a presto» rivolto all’amica in una lettera del 1964, come a revocare la scena funebre con la quale si era concluso il suo ritratto. Di José Bergamín dice: «Mi è sempre apparso, perché la sua era sempre, per quanto dimessa e profana, un’apparizione» e l’amicizia che ne seguiva «un incanto». La visione del volto ormai cadaverico di Italo Calvino evoca «la maschera funebre di Pascal», e questa curiosa associazione gli consente di mettere in questione «il luogo comune di un Calvino razionalista». In quanto a Giorgio Caproni: «All’inizio degli anni Ottanta, come mi capita ogni volta che scopro un poeta, ero furiosamente e felicemente naufragato nella poesia di Caproni». L’amicizia che ne seguì avrebbe confermato ciò che forse Agamben già sapeva, ossia che non si può distinguere – almeno in esistenze come queste – tra vita e poesia, «se la vita e ciò che si genera nella parola e resta da essa inseparabile». Non meno improbabile è la distinzione tra pensiero e poesia, i quali «sono le due intensità che traversano l’unico campo del linguaggio e come non si dà pensiero senza relazione alla poesia, così la filosofia è il punto di fuga dell’esistenza poetica».
Non stiamo suggerendo che i ritratti di Agamben siano dei piccoli idilli di un mondo per lo più scomparso. Infastidito, Giovanni Urbani stigmatizzò sia la decisione di trasferirsi a Venezia, sia il progetto di dedicarsi unicamente alla scrittura filosofica: «Ti sei tirato da parte», fu il suo rimprovero, che deve aver toccato un nervo scoperto del filosofo, se alla fine si rammarica di non aver saputo «fare nulla per lui» negli ultimi anni della sua vita; di non aver interrogato «la figura nascosta» dietro «il velo» del suo volto. Ciò nonostante, anche Urbani fu «uno dei nostri». L’espressione, a dire il vero, è un po’ elusiva, come capita spesso nei libri di Agamben. A quale “noi” si allude? Indubbiamente, i diciassette ritratti insistono sul milieu in cui il giovane filosofo conobbe la sua iniziazione alla vita intellettuale. In prima istanza l’ambiente di Elsa Morante, del quale facevano parte Pasolini, Sandro Penna, Cesare Garboli, Natalia Ginzburg. «Nel secondo mondo, che era più monde nel senso sociale del termine, erano di casa Arbasino, Flaiano, Bassani, Francesco Rosi e un numero indeterminato di creature, improbabili quanto impervie, che appartenevano alla nobiltà romana e al “bel mondo”» Da questo punto di vista, Amicizie può esser letto come un garbato ritratto di un milieu artistico-intellettuale ormai trascorso, del quale non sempre si prova nostalgia. Ma il vero proposito del libro sta altrove: nell’evocazione d’una comunità spirituale, irriducibile sia alla militanza politica (di questo, nemmeno un cenno), sia alla communio sanctorum della tradizione ecclesiale. Del resto, la distinzione sarebbe ai suoi occhi poco pertinente, giacché la teologia – glielo insegnò Raúl Ruiz, e forse qualcun altro prima di lui - non sarebbe «un discorso su Dio», ma il luogo in cui è possibile «porre con maggiore limpidità, ironia e chiarezza i problemi umani, dal più spicciolo al più poderoso». Insomma, né partito né chiesa ma una comunità di amici: una communio reale, socialmente identificabile (Agamben lo sottolinea in polemica con l’amicizia a venire di Derrida, a suo avviso deludente anche su questo punto), ma segnata dalla precarietà delle singolarità esistenti.
In altre parole, la circostanza che si tratti per lo più di uomini e donne ormai scomparse non suggerisce – non in prima istanza, per lo meno - la nostalgia di un paradiso perduto (benché sia noto il disprezzo di Agamben per ciò che ne ha preso il posto) quanto la fragilità di questa piccola comunità amicale. Resta il dubbio se la “Postilla filosofica” (già edita presso Nottetempo nel 2007) conforti le considerazioni qui suggerite. Abbiamo parlato di una comunità di uomini e donne reali. Non è un caso, ad esempio, che Agamben esiti a chiamare amicizia il suo rapporto con Alain Cluny. Sonia Alvarez gli divenne «intima soltanto nei sogni». Riguardo a Pierre Klossowski, non può tacere «di esser stato rattristato e perfino un po’ allontanato da lui» quando questi decise d’abbandonare la scrittura. Nulla di male, se non ci si ricordasse di quanto confessò Montaigne a proposito di Etienne La Boétie, in uno dei luoghi più alti della storia dell’amicizia. Essi vissero nell’accordo perfetto delle volontà; si affidarono completamente l’uno all’altro, come se fossero la stessa persona; tant’è vero che, citando con approvazione Aristotele, Montaigne concluse che l’amicizia è «come un’anima in due corpi». A La Boétie poteva confidare tutto, anche il segreto più inconfessabile, perché parlare a lui era come rivolgersi a sé stesso. Agamben suggerisce qualcosa di simile quando, nella Premessa, parla dell’amico come un alter ego, ovvero – qui forse con una sensibilità più pascaliana che aristotelica – come «qualcuno che rende amabile e grata la cosa più odiosa: il nostro io». Montaigne, credo, avrebbe approvato. Eppure presentandoci le sue amicizie trascorse, Agamben evoca un’esperienza diversa, nella quale la metafora centrale non è più quella dell’alter ego (qualsiasi cosa significhi) ma quella di un eslego incontro con colui (colei) che eccede ogni nostra ipseità. Il buon Samaritano, insomma, assai più del saggio aristotelico. Ma di questo, sarebbe bello discutere.