venerdì 3 marzo 2023
Dopo gli anni impressionisti l’artista francese ritorna “all’ordine” e dà vita a una pittura densa e intrisa di mito che inaugura molte piste del secolo nuovo
Pierre-Auguste Renoir, “La Baigneuse blonde”, 1882 (particolare)

Pierre-Auguste Renoir, “La Baigneuse blonde”, 1882 (particolare) - Pinacoteca Agnelli, Torino

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Per quanto la si possa giudicare diversamente – a partire dal fatto se apra o chiuda un’epoca – la stagione dell’Impressionismo appare davvero come il prototipo delle avanguardie: gruppo eterogeneo, unità di intenti, brevità temporale, successo di scandalo... Se manca il manifesto c’è invece un altro tratto fondamentale: il ripudio. Il caso più eclatante è quello di Pierre-Auguste Renoir, il cantore della vita en plein air e della joie de vivre, che già alla quarta mostra impressionista nel 1879 (la prima era stata nel 1874) esce dal gruppo. In tre mesi a cavallo tra 1881 e il 1882, ormai quarantenne, intraprende un viaggio in Italia. Ne uscirà con una pittura trasformata che lo accompagnerà fino alla fine della vita, nel 1919, e che Paolo Bolpagni, curatore dell’importante mostra appena aperta a Rovigo ("Ronoir. L'alba di un nuovo classicisimo" a Palazzo Roverella fino al 25 giugno), definisce “l’alba di un nuovo classicismo”. Sembrerà forse un’eresia a molti, e molti penseranno che possa dipendere dal gusto, ma il Renoir del dopo impressionismo è molto più interessante del primo. Certamente il Renoir impressionista è un grande pittore ma in un certo senso la dimostrazione di bravura, la ricerca dell’effetto, lo schiacciano. Persino la tranche de vie risulta alla lunga ridondante. Egli stesso, e lo dimostrano le lettere, si sente finito in un cul de sac. Scrive infatti dall’Italia che Raffaello «non dipinge-va all’aperto, ma aveva studiato il sole, perché i suoi affreschi ne sono pieni. Io invece, a forza di vedere l’esterno, ho finito per prestare troppa attenzione ai piccoli particolari che offuscano il sole invece di esaltarlo». E questo nonostante Renoir, al di sotto di un tecnica che sembra nascondere i corpi nella luce rendendoli impalpabili, sia il più “degasiano” degli impressionisti. Come sottolinea Francesca Castellani nel saggio in catalogo (Silvana), Renoir ha sempre nella mente il museo e la tradizione: le grandi composizioni dei balli al Moulin de la Galette o dei pranzi dei canottieri ripensano il formato della pittura di storia nel quotidiano; o ancora un dipinto iconico come La loge (“Il palco”) rivela una sofisticata costruzione visiva e concettuale che ha molto poco di impressionistico strictu sensu. Ma soprattutto, in una prospettiva storica il Renoir impressionista non apre a poco altro se non alla replica epigonica. Il Renoir invece talvolta ritenuto regressivo della fase “aigre” ha in sé molti semi della pittura a venine re: di quella più colta e non meno novatrice di altre. Perché l’errore storico, che ancora si perpetra, è stato confondere la modernità con le avanguardie mentre è nel profondo una questione di spirito.

Pierre-Auguste Renoir, “Roses dans un vase”, 1900 (particolare)

Pierre-Auguste Renoir, “Roses dans un vase”, 1900 (particolare) - Pierre-Auguste Renoir, “La Baigneuse blonde”, 1882. Pinacoteca Agnelli, Torino Pierre-Auguste Renoir, “Roses dans un vase”, 1900. Kunsthaus, Zurigo

La mostra ricostruisce in modo molto puntuale ed efficace questa dimensione di lunga portata della pittura di Renoir. In un certo senso l’artista è interprete ante litteram di quel fenomeno solitamente chiamato “ritorno all’ordine” – espressione un po’ sfortunata che suona come una Quaresima dopo un Carnevale – e che Bolpagni preferisce sostituire con il rappel à l’ordre di Cocteau, o meglio ancora con il “ritorno al mestiere” usato da de Chirico nella fase postmetafisica per contrassegnare il proprio desiderio di una pratica pittorica che guarda alla storia e che è certamente valido per un Renoir lettore, per scriverne più tardi una prefazione, del trattato di Cennino Cennini. L’artista francese infatti sente il bisogno di recuperare un gap culturale e tecnico, di rifondare la propria pittura su basi di una concretezza quasi arcaica. Questo conciso Grand Tour italiano, che da Venezia arriva a Palermo toccando Firenze, Roma, Napoli e la Calabria, ha esattamente questa funzione: il fatto poi che avvenga nella fase della piena maturità e non agli inizi della sua formazione gli consente un rapporto libero, da pari, con i modelli. In Italia Renoir scopre ciò che non poteva vedere al Louvre: la pittura veneta del Quattrocento di Carpaccio e il colorismo flamboyant di Tiepolo, il Raffaello affreschista, la pittura pompeiana. E scopre quella luce, lagunare o mediterranea, che a Parigi non c’è e che presto inseguirà trasferendosi, anche per ragioni di salute, nel Midi. Tutto questo si salda con il mai sopito amore per Ingres e quindi di Rubens a cui possiamo aggiungere più avanti la pittura guizzante e per segni dell’ultimo Delacroix. Il trait d’union con il momento impressionista, come sottolinea Bolpagni, è il problema «della luce, di come catturarla sulla tela: il tema è un altro, e concer il “metodo”, la via da seguire per raggiungere tale scopo». Non è un caso che l’esito sarà una pittura di sintesi, massiva, «fuori dal tempo » la definisce Bolpagni, lontana da sofismi simbolisti, compositivamente complessa e opulenta dal punto di vista cromatico. In mostra è rappresentata da un capolavoro assoluto, La bagnaise blonde della Pinacoteca Agnelli (1882), uno dei nudi più belli di tutto l’Ottocento, e da un nutrito gruppo di bagnanti. Allo stesso tempo non è un caso che approdi alla scultura, a cui l’artista si dedica incitato di Maillol. Renoir si riaggancia dunque al tema del classicismo che è una delle anime vere della cultura francese, ma lo fa con un approccio anticlassico”, dove il mito del Mediterraneo e la forza delle forme prende il posto dei canoni e della mimesis. Una categoria di classicismo dunque che sarà propriamente novecentesca. È così che Renoir diventa un riferimento per gli artisti degli anni Venti e Trenta. Lo dimostrano i riscontri italiani, ben documentati in mostra, con de Chirico che si dichiara apertamente debitore del francese, ma anche di scultori come Marino Marini ed Eros Pellini, mentre è una piccola mostra nella mostra l’omaggio-riscoperta ad Armando Spadini. Non solo. C’è un Renoir che apre ulteriori prospettive attraverso generi di minore impegno e per questo campo per libere sperimentazioni come nature morte (qui messe a confronto con lavori più tardi di De Pisis, Tosi e Paulucci) e piccoli dipinti di paesaggi (a cui non sarebbe dispiaciuto vedere accostati gli analoghi di Sassu). Questi ultimi insieme a una serie di tardi ritratti femminili presentano tinte acide e forme liquide che sembrano aprire piste protoespressioniste. Ma è impossibile non pensare che la via tracciata verso il mito panico sarà poi percorsa dopo un fondamentale viaggio in Italia dal Picasso “richiamato all’ordine” (e tra l’altro collezionista del secondo Renoir) come pure da Matisse. D’altra parte anche nell’«eterna e soleggiata arcadia» di Renoir “ tout n’est qu’ordre et beauté, / Luxe, calme et volupté”.

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