domenica 29 agosto 2021
Nei canti XXI e XXII del Paradiso insieme alla figura di Benedetto da Norcia si intrecciano quelle di san Romualdo e san Pier Damiani, due grandi anacoreti e riformatori della Chiesa
San Pier Damiani

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Alla simmetria dei canti XI e XII del Paradiso, celebri per il doppio elogio di san Francesco e san Domenico, corrisponde, più in alto ancora nella scala Paradisi, il ritratto di san Pier Damiani e san Benedetto, ai canti XXI e XXII. Dopo aver tracciato le origini dell’ordine francescano e domenicano, Dante evoca ora, nel cielo di Saturno, le origini dei camaldolesi di Fonte Avellana e san Pier Damiani, e poi di san Romualdo e san Benedetto e del suo ordine che fu modello per lunghi secoli, nella stabilitas loci, di operosa conciliazione tra la preghiera e le opere. È indubbio che Dante, estremamente severo sulla corruzione della Chiesa secolare del proprio tempo, non disdegnando di condannare papi all’inferno, sia molto sensibile alla linfa che alla stessa è venuta dagli ordini regolari, dei quali, nei canti citati, richiama le origini e celebra i fondatori. E il poeta stesso enfatizza questo ruolo privilegiato di ordini chiamati alla contemplazione, collocando proprio in quel cielo di Saturno la 'scala di Giacobbe': «Vidi anche per li gradi scender giuso / tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume /che par nel ciel, quindi fosse diffuso» (Par., XXI, 31-33), secondo il racconto della Genesi: «Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco il Signore gli stava davanti e disse: 'Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza'» (Gen., 28, 1013). L’evocazione è fatta proprio perché quel simbolo è posto da san Benedetto alla base stessa della propria Regola: «E dunque, o fratelli, se vogliamo toccare la cima dell’eccelsa umiltà, e giungere a quella celeste esaltazione, a cui si ascende per l’umiltà della presente vita, e a condurre in alto le nostre azioni, è necessario innalzare quella scala, che apparve in sonno a Giacobbe, per la quale si mostravano a lui gli angeli scendere e salire. Quel discendere e salire non va da noi inteso in altro modo, se non che si discende coll’esaltarsi, e si sale su coll’umiliarsi» (Regula sancti Benedicti, cap. VII: De humilitate, 5-7). È una dimensione nuova dell’ordine celeste, l’ordine della contemplazione, come aveva illustrato Cromazio d’Aquileia: «E fu mostrata quella scala di Giacobbe, la cui cima dalla terra toccava il cielo, attraverso la quale chi vi ascenda trova la porta del cielo, e varcandone la soglia, senza fine rimarrà in letizia al cospetto di Dio e lo loderà in eterno con tutti gli angeli» (Sermo de octo beatitudinibus, IX; in PL, 20, 328A). La presentazione dantesca avviene, in questi due canti, in ordine cronologico inverso, iniziando da san Pier Damiani per terminare col fondatore e radice di tutti i rami del monachesimo benedettino, e cioè san Benedetto stesso. I termini geografici entro i quali Pier Damiani (Ravenna, 1007 - Faenza, 1072) incornicia la propria vicenda spirituale, incentrata su Fonte Avellana: «Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi, / e non molto distanti a la tua patria, / tanto che ’ troni assai suonan più bassi, // e fanno un gibbo che si chiama Catria, / di sotto al quale è consecrato un ermo, / che suole esser disposto a sola latria» (XXI, 106-111), sono simili e con pari solennità enunciati, a quelli con cui viene presentato san Francesco: «Intra Tupino e l’acqua che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo, / fertile costa d’alto monte pende » (XI, 43-45). Ma la ragione della predilezione dantesca è forse altra, e cioè l’avere il santo saputo unire vita contemplativa e vita attiva, rinunciando, dopo gli anni di priorato a Fonte Avellana (1043-1057), alla vita romita per divenire consigliere di papa Stefano IX, vescovo di Ostia e cardinale: «Poca vita mortal m’era rimasa, / quando fui chiesto e tratto a quel cappello / che pur di male in peggio si travasa » (XXI, 124-126), impegnandosi in una delle battaglie per Dante più essenziali all’avvenire della Chiesa, e cioè la lotta contro la simonia delle cariche. E tanto si legge anche nei primi Testimonia de vita Beati Petri Damiani ove si ricordano a un tempo le opere ascetiche e quelle riformatrici come il De avaritia praelatorum, e Contra episcopos simoniacos (PL, 144, 187C) che non potevano che essere care a Dante, ribadite nel suo polemico elogio: «Venne Cefàs e venne il gran vasello / de lo Spirito Santo, magri e scalzi, / prendendo il cibo da qualunque ostello. // Or voglion quinci e quindi chi rincalzi / li moderni pastori e chi li meni, / tanto son gravi, e chi di rietro li alzi. // Cuopron d’i manti loro i palafreni, / sì che due bestie van sott’ una pelle: / oh pazïenza che tanto sostieni!» (XXI, 127-135). E soprattutto ammirabile appare, infine, nel suo uscire dagli onori e dalle pompe del mondo, dimessosi da tutte le cariche, ritornando (nel 1067) al monastero di Fonte Avellana: «episcopatui cessit, ut Deo liberius vacaret » (PL, 144, 188A). Il desiderio di identificazione per Dante è tale che, nell’esprimerlo: «Io stava come quei che ’n sé repreme / la punta del disio, e non s’attenta / di domandar, sì del troppo si teme» (XXII, 25-27), si appropria delle parole stesse di Pier Damiani: «et in divinae contemplationis acumen totum desiderii sui figens affectum, gaudens, gaudet in Domino » (Sermones XXIX ; PL, 144, 661). Non diverso è il manifestarsi del fondatore di tutte quelle rinascite, san Benedetto, anch’esso ritratto tra i monti ove ancora vigevano culti pagani: «Quel monte a cui Cassino è ne la costa / fu frequentato già in su la cima / da la gente ingannata e mal disposta; // e quel son io che sù vi portai prima / lo nome di colui che ’n terra addusse / la verità che tanto ci soblima» (XXII, 37-42). Dante qui segue fedelmente la Vita di Benedetto nei Dialogidi Gregorio Magno, in un elogio vigoroso di quella firmitas su cui è fondata ogni durata: «Qui è Maccario, qui è Romoaldo, / qui son li frati miei che dentro ai chiostri / fermar li piedi e tennero il cor saldo» (XXII, 49-51). 'Fermar li piedi e tenner il cor saldo': questo è il credere di Dante e, non meno, la sua visione della Chiesa: «ma Cristiani, in ferma fede » (Par., XX, 104).


I versi eponimi


Render solea quel chiostro a questi cieli

fertilemente; e ora è fatto vano

sì che tosto convien che si riveli.

In quel loco fu’ io Pietro Damiano

(Paradiso XXI, 118-121)


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