giovedì 25 gennaio 2024
Molti campi di sterminio in Europa orientale, distrutti dai nazisti in fuga, sono stati quasi rimossi dalla memoria. I corpi degli ebrei dell’Est furono sepolti in fosse comuni
La Mirror Field Installational  Memorialedi Babij Jar, presso Kiev

La Mirror Field Installational Memorialedi Babij Jar, presso Kiev - courtesy of Babyn Yar Holocaust Memorial Center

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Chelmno, Belzec, Sobibor, Treblinka. L’orrore della Soluzione finale nazista ebbe inizio lì, nella più remota periferia polacca, ai margini orientali dell’Europa. La macchina dello sterminio degli ebrei si mise in moto nell’estate del 1941, in concomitanza con l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, e poi si allargò come una metastasi al resto del Vecchio continente. Ma quei luoghi che testimoniarono la genesi della Shoah, in cui trovò la morte quasi un terzo del totale degli ebrei eliminati hanno subito un progressivo processo di rimozione che ne sta inesorabilmente cancellando la memoria.

«A differenza di Auschwitz-Birkenau, dov’è stato realizzato il museo più grande d’Europa sull’Olocausto, sui centri di sterminio della Polonia centrale e settentrionale non esistono testimonianze, le prove concrete sono scarse e per individuare tracce di ciò che accadde è necessario affidarsi alla ricerca archeologica». A parlare è lo storico Frediano Sessi, tra i massimi esperti italiani della Shoah e dell’universo concentrazionario nazista, che ai quattro centri di sterminio polacchi ha dedicato il suo ultimo libro Oltre Auschwitz. Europa orientale, l’Olocausto rimosso (Marsilio, pagine 400, euro 30,00), uno studio dettagliato e ricco di documenti inediti che colma un vuoto storiografico importante nel panorama europeo degli studi sull’Olocausto.

Lo sterminio degli ebrei - come ha sempre sostenuto anche lo statunitense Raul Hilberg, tra i capostipiti degli studi sull’Olocausto - non fu una decisione preordinata da parte di Hitler e quando le armate tedesche invasero la Polonia nel 1939 non era stato ancora deliberato. Il progetto prese forma soltanto nel 1941, poco dopo l’invasione dell’Urss e secondo Sessi furono le esecuzioni compiute nelle prime settimane dell’occupazione dei territori sovietici a sfatare per la prima volta il tabù dell’uccisione di donne e bambini. Uno dei punti di non ritorno fu l’eccidio del 22 agosto 1941 a Bjelaja Zerkow, una remota località dell’Ucraina. Quel giorno le Einsatzgruppen (i reparti speciali composti da uomini delle SS, della polizia e della Wehrmacht) massacrarono un centinaio di bambini molto piccoli, tutti di età non superiore agli otto anni.

«Invadendo l’Unione Sovietica Hitler voleva conquistarsi uno spazio a est per trasferire gli ebrei e le altre popolazioni non gradite in una zona dove sarebbero diventati di fatto degli schiavi», spiega Sessi. «L’idea della Soluzione finale della questione ebraica nacque quando i nazisti si resero conto che lo spostamento a est delle popolazioni che non si volevano far rimanere nelle terre considerate ariane divenne impossibile, perché la guerra con Mosca non stava dando gli esiti sperati». La guerra sul fronte orientale segnò un battuta d’arresto che cambiò i piani del Reich e spinse il Führer a ordinare lo sterminio degli ebrei del ghetto di Lodz ritenuti inadatti al lavoro. «Fino ad allora si era ucciso tramite fucilazione o per fame. Da quel momento in poi si decise di ricorrere ai camion a gas, lo stratagemma con il quale erano stati eliminati i disabili e i malati di mente con il progetto Eutanasia».

Tutto ebbe inizio a Chelmno, un piccolo villaggio contadino sul fiume Ner che avrebbe ospitato il prototipo dei centri di sterminio nazisti, luoghi progettati e costruiti per funzionare soltanto come strutture omicide e in tal senso molto diverse da Auschwitz, poiché non prevedevano alcuna possibilità di sopravvivenza. Lì gli ebrei vennero ammassati all’interno del cosiddetto “castello” per poi essere uccisi con il monossido di carbonio prodotto dai motori dei camion che li trasportavano in una vicina foresta, dov’erano state predisposte le fosse comuni. Gli altri tre centri di sterminio (Belzec, Sobibor, Treblinka) furono progettati invece con camere a gas fisse ma l’obiettivo era sempre lo stesso, ovvero purificare la razza attraverso un’eliminazione di massa. Il progetto costituì un modello efficiente che poi sarebbe stato replicato nel resto d’Europa.

Gli esecutori materiali di questo orrore, a cui venne dato il nome in codice Aktion Reinhardt, furono appena duecento, chiarisce Sessi, «perlopiù giovani tedeschi, animati dalla fede nell’utopia del nazismo e capaci di esercitare la violenza per raggiungere i loro scopi, quasi tutti attivi in precedenza nell’uccisione dei disabili e dei malati di mente, affiancati da alcuni ausiliari, in gran parte sostenitori di un pangermanesimo antisemita e decisi a escludere dalla nuova germanità ariana tutti coloro che non erano di sangue tedesco». In seguito quegli uomini sarebbero stati trasferiti a combattere contro i partigiani di Tito nella speranza che morissero in battaglia, portando con sé il loro terribile segreto. Tra loro vi fu anche il capitano delle SS Christian Wirth, figura di primo piano nella progettazione del programma Eutanasia che divenne il comandante del campo di Belzec prima di essere trasferito in Italia a dirigere la Risiera di San Sabba. Dopo la guerra appena una trentina di quegli uomini finirono sotto processo in Germania.

I nazisti hanno cercato in tutti i modi di cancellare le tracce dei loro crimini e in buona parte ci sono riusciti. I campi furono completamente rasi al suolo e ormai anche la memoria di quei luoghi è andata quasi perduta al punto che, secondo Sessi, si può parlare di “Olocausto rimosso”. «Finora si è parlato quasi sempre della tragedia degli ebrei occidentali mentre quelli dell’est, non essendo integrati con le popolazioni locali e parlando una lingua tutta loro, l’yiddish, sono stati spesso dimenticati. Sulla loro fine esistono pochissime prove concrete e mancano quasi del tutto le testimonianze scritte. I sopravvissuti di questi quattro centri di sterminio furono circa centocinquanta e scelsero di restare in silenzio, cercando di dimenticare l’inferno che avevano conosciuto». Un lento processo di rimozione al quale in tempi recenti hanno contribuito anche i governi polacchi di estrema destra. Alcuni anni fa il Senato di Varsavia approvò una legge che vietava di accusare la Polonia di complicità nell’Olocausto. Alcuni storici vennero denunciati per aver smentito la narrazione secondo la quale il popolo polacco avrebbe difeso gli ebrei dai nazisti. «È ormai provato invece, che i tedeschi ricevettero un aiuto fondamentale dalla popolazione dei villaggi, che contribuì attivamente alla caccia degli ebrei. Senza l’apporto decisivo della popolazione non ci sarebbe stato uno sterminio così massiccio e capillare».

Oggi, a parte alcuni piccoli musei che non riescono a restituire il senso di una tremenda pagina della recente storia europea, quelle remote località polacche hanno le sembianze di luoghi turistici innocui e sono spesso dimenticate nelle celebrazioni memoriali, oltre che difficilmente raggiungibili perché prive di collegamenti. Non stupisce quindi che abbiano pochissimi visitatori al contrario di Auschwitz, che è assai più conosciuto, anche se venne dopo, perché lì vennero uccisi gli ebrei dell’Europa occidentale. «Il monumento agli ebrei dell’est assassinati qui è invece il suolo nudo, la foresta, l’acquitrino da cui a volte spunta qualche fiore, sorto da quella terra sacra», conclude Sessi.

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