martedì 17 marzo 2020
45 anni fa l’ingresso dei khmer rossi a Phnom Penh diede il via a una delle più brutali stragi di massa del ‘900: morì un quarto dei cambogiani
I leader dei khmer rossi, il primo a sinistra è Pol Pot (1975)

I leader dei khmer rossi, il primo a sinistra è Pol Pot (1975) - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

«Uomini e donne vestiti di nero. Con la pelle grigia per la malaria e gli anni di stenti passati nella giungla. Con i fucili a tracolla e gli sguardi assenti. Giovanissimi, quasi bambini. Ai cittadini i guerriglieri comunisti sembrano arrivare da un altro pianeta. Ma lo stesso pensarono i khmer rossi dei cittadini, con non troppo celato disdegno. Finalmente si trovano di fronte ai “nemici” di cui tanto avevano sentito parlare, i “capitalisti” che rifiutavano di entrare nella Rivoluzione». Tiziano Terzani raccontò così l’entrata dei khmer rouge a Phnom Penh, la mattina del 17 aprile 1975. I guerriglieri arrivarono nella capitale cambogiana a piedi, in bicicletta e con qualche camion, senza incontrare alcuna resistenza. Dagli edifici del centro cittadino iniziarono a spuntare bandiere bianche, simbolo di resa, e la popolazione scese in strada per dare il benvenuto ai “liberatori” che avevano abbattuto l’odiato regime filo–statunitense del generale Lon Nol. Nessuno poteva immaginare che quei rivoluzionari di ispirazione comunista e nazionalista avrebbero di lì a poco trasformato il destino del Paese in modo apocalittico. Ma poche ore dopo, i khmer rossi iniziarono l’evacuazione forzata di tutti gli abitanti di Phnom Penh, dicendo che si trattava di una misura temporanea per ridurre il sovraffollamento e difendersi da possibili bombardamenti americani. Chi si rifiutava di abbandonare la propria casa veniva fucilato sul posto. Nessuno era autorizzato a restare in città: anche gli ospedali dovevano essere svuotati.

Quasi due milioni di persone furono costrette a marciare verso le campagne sotto un caldo infernale. I più partirono a piedi, in bici o su carri trainati da buoi. Vecchi e malati vennero portati via sui lettini degli ospedali. Il trasferimento fu talmente repentino e violento che non mancò di provocare vittime, soprattutto tra i disabili e gli infermi, anch’essi ugualmente obbligati alla marcia forzata. In pochi giorni Phnom Penh venne svuotata completamente e si trasformò in una città fantasma. Era appena iniziata una delle più feroci dittature del XX secolo, che si rese responsabile di un genocidio epocale e senza precedenti nella storia dell’umanità. I khmer rossi erano nati alcuni anni prima come costola dell’esercito popolare del Vietnam del Nord. Il loro obiettivo era quello di creare una repubblica socialista agraria completamente autosufficiente, in cui i vertici del partito controllavano tutti gli aspetti della vita dei cambogiani. Sotto la guida del loro leader, Pol Pot (detto anche “Fratello numero uno”), avviarono un programma di ingegneria sociale di stampo maoista che prevedeva l’azzeramento della famiglia, del denaro e della religione al fine di creare “l’uomo nuovo”, un rivoluzionario ateo, etnicamente “puro”, privo di affetti o inclinazioni borghesi e dedito esclusivamente al lavoro dei campi, alla patria e alla rivoluzione.

Per cercare di comprendere uno dei più grandi drammi dell’era contemporanea, il giornalista britannico Philip Short, già corrispondente della Bbc, ha compiuto un’approfondita indagine sulla vita di Pol Pot intervistando i ca- pi superstiti dei khmer rossi, e passando in rassegna gli archivi cinesi, russi, vietnamiti e cambogiani. Il risultato del suo lavoro è confluito in uno dei testi–chiave sul genocidio cambogiano, Anatomia di un genocidio. Pol Pot e i crimini dei khmer rossi (già uscito alcuni anni fa per Rizzoli col titolo Pol Pot. Anatomia di uno sterminio e adesso riproposto dalle edizioni Res Gestae; pagine 664, euro 26,00), che traccia il destino di una nazione e di un popolo che quell’uomo portò alla rovina. Al contrario dei sovietici e dei cinesi, i khmer rossi non avevano programmi economici radicali. La loro idea di ricomposizione sociale si basava semplicemente sull’eliminazione di tutti coloro che erano considerati “nemici del popolo” e colpì prima di tutto le minoranze vietnamita, cinese, musulmana e poi tutti i borghesi, veri e presunti. All’inizio del 1976 i khmer rossi cambiarono il nome del Paese in Kampuchea democratica e costrinsero centinaia di migliaia di cambogiani a trasferirsi nei campi di lavoro dove iniziarono gli abusi fisici, la malnutrizione, le malattie e le esecuzioni di massa. I più colpiti furono i ceti istruiti: coloro che fino a poco tempo prima costituivano la classe intellettuale del Paese vennero perseguitati perché considerati parassiti irrimediabilmente contaminati dalla vecchia cultura e potenziali controrivoluzionari. Bastava possedere libri o conoscere una lingua straniera, oppure il semplice fatto di portare gli occhiali, per essere etichettati come insegnanti o studiosi. Sotto la scure del regime caddero tutti quelli che erano mediamente acculturati e non del tutto inquadrabili all’interno della nuova ideologia.

Lo sterminio sistematico della classe sociale degli intellettuali divenne una caratteristica peculiare del genocidio cambogiano. I sopravvissuti hanno raccontato che nei campi si era costretti a lavorare dodici ore al giorno, e si ricevevano soltanto due ciotole di riso, una a pranzo e una a cena. Chi veniva trovato a rubare il cibo era ucciso all’istante. Le persone venivano imprigionate e torturate soltanto perché sospettate di essere contro il regime o perché altri prigionieri avevano fornito i loro nomi sotto tortura. Intere famiglie – inclusi i bambini e persino i neonati – finirono in prigione e in molti casi vennero uccise barbaramente, perché i khmer rossi temevano che i loro parenti avrebbero prima o poi cercato di vendicarli. Molti prigionieri non sapevano neanche per quale motivo fossero stati imprigionati. Fu un periodo di terrore assoluto che si concluse soltanto all’inizio del 1979, con l’invasione della Cambogia da parte delle truppe dell’esercito vietnamita e la fuga del governo khmer e degli uomini di Pol Pot nella giungla. In poco meno di quattro anni, oltre un milione e ottocentomila cambogiani, pari a circa un quarto della popolazione del Paese, furono sterminati, oppure morirono a causa delle carestie e dell’assenza di cure mediche. Interessi geopolitici legati alla Guerra Fredda hanno impedito che la conoscenza dei crimini commessi dal regime cambogiano si trasformasse in un atto d’accusa.

A lungo i khmer rossi hanno potuto contare sul sostegno degli Stati Uniti e della Cina in chiave anti–sovietica, e soltanto nel 1994 sono stati dichiarati fuorilegge dalla comunità internazionale. Pol Pot è rimasto impunito e ha continuato a vivere all’interno del Paese da libero cittadino fino alla sua morte, avvenuta nel 1998 in circostanze misteriose. Nel 2006 è stata finalmente istituita una corte internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite – il Tribunale speciale per i khmer kossi – che quasi quarant’anni dopo la caduta del regime è riuscito a condannare all’ergastolo per crimini contro l’umanità tre dei principali responsabili delle atrocità commesse negli anni ‘70. Il primo fu Kaing Kek lew, soprannominato Duch, il capo della polizia e direttore del famigerato campo di tortura S–21. Poi sono arrivate le condanna a carico di Nuon Chea, l’ideologo del partito, e di Khieu Samphan, capo di stato del regime. Ma la prima sentenza che ha riconosciuto ufficialmente il crimine di genocidio è arrivata soltanto nel novembre del 2018

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: