Gerard Manley Hopkins (1844-1889) - WikiCommons
Gesuita, poeta, interprete degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, celebre per il suo poemetto Il naufragio del Deutschland, Gerard Manley Hopkins (Stratford, 1844 – Dublino, 1889) è un “francescano materico”. Se il suo principale interprete, W.H. Gardner, osserva che «la tradizione di san Francesco fu continuata in poesia dall’agostiniano spagnolo Luis de León, dal mistico carmelitano Juan de la Cruz, dai poeti inglesi Vaugham e Traherne. Da questa linea genealogica di gioiosi visionari Hopkins discendeva » (citato da Franco Marucci nella bella Introduzione alla nuova raccolta da lui curata di poesie di Gerard Manley Hopkins, Il naufragio del Deutschland e altre poesie, testo inglese a fronte, Mondadori, pagine 360, euro 12,00), occorre aggiungere che il suo francescanesimo è quello del Sacrum commercium beati Francisci cum domina Paupertate: «E, Povertà, sii tu sposa del Figlio / Ora che s’officia lo sponsale, / E abiti cuci del color del giglio / Al tuo sposo, senza spola né filo» ( L’abito della perfezione). Certo quel finale – « not laboured – at nor spun » riprende alla lettera Milton: « and cloth in fresh attire The Lillie and Rose, that neither sow‘d nor spun » (Sonetto X, 8), ma Hopkins lo rende radicale, elevato in un « elected Silence » ( ivi). Il mito francescano di fine secolo XIX e di inizio XX deve molto a Hopkins non meno che a Rilke e alla terza sezione del suo Libro d’ore, quella Della povertà e della morte: «Signore, siamo più poveri delle povere bestie / che muoiono della loro morte…» ( Herr, wir sind ärmer); ma in Hopkins c’è una più profonda fedeltà, quella della contemplazione, il cui frutto più agognato è la Pace, frutto del saper prendere su di sé: «Davvero, se ci toglie la Pace Dio dovrebbe lasciare / Qualcos’altro di bene! E così lascia l’eletta Pazienza / Che poi di Pace mette le piume» ( La pace).
Ho già altrove evocato ( Dopo la gloria. I secoli del credere in Occidente, Treccani 2019) l’importan- za del Naufragio del Deutschland, quasi un martirologio in versi dedicato «Alla beata memoria di cinque / suore francescane esiliate / dalle leggi Falck, annegate / tra la mezzanotte e il mattino / del 7 dicembre 1875», nella furia degli elementi, nel vacillare della Speranza: «La Speranza da dodici ore era perita; / E notte tremenda su infausto giorno scendeva»; inno tuttavia al fondatore di quell’ordine, al padre cherubico: «Gioia ne venga a te, padre Francesco, / Tratta alla morte, di Vita scaturigine; / Le fitte dei chiodi, le piaghe da lancia scavate, / Stimmate, della Croce immagine, / Sigillo di serafico avvento! […]».
Martirio e apoteosi, quel poemetto è forse, con Il Cristo di Velázquez di Miguel de Unamuno, il più eloquente inno all’Incarnazione e alla Passione che la poesia contemporanea abbia elevato: «Verbo di chi, se non di lui, è il tempo che scorre, / E di cui lingua e parole son cielo e terra?». Franco Marucci è, da tempo, un fedele e appassionato interprete di Hopkins, come traduttore e come critico; osa qui un lessico di forte espressività (come si farebbe altrimenti a tradurre il « beat of endragoned seas »?), già saggiato nel suo Calendario liturgico (Castelvecchi 2022). Hopkins è un autore d’irta altura, caro a chi – come Ezio Raimondi – abbia sempre a mente il « Sì che Tu sei terribile!» del manzoniano Natale del 1833: «Tu, che mi sei signore, / Dio, che dai vita e pane; / / Signore dei vivi e dei morti; / Tu hai in me stretto vene e ossa, mi hai di carne serrato, / E poi hai quasi disfatto, in nome di qual terribile potere, / La tua opera: ma, mi toccheresti di nuovo? / Una volta ancora, sento su di me il tuo dito e ti ritrovo» ( Il naufragio del Deutschland). Questa lezione non si dispiega, s’impone – quasi michelangiolesco agone: «In un battito, a un fragore di tromba / Eccomi mutato in ciò che Cristo è, se lui fu ciò ch’io sono / E questo tizio, scherzo, povero coccio, ritaglio, avanzo / immortale diamante / È immortale diamante» ( Sul fuoco eracliteo che è la natura / e sul conforto della Resurrezione).
La possente drammaturgia della Sistina fluisce in Hopkins, suprema epifania dell’Onnipotenza e sigillo del silenzio: «Ti ammiro, Maestro delle maree, / Del diluvio remoto e di questo finire dell’anno, / / Fondamento dell’essere, suo granito» ( Il naufragio del Deutschland, 32). Il Dio di Hopkins è così incarnato che l’uomo può nuovamente lottare con lui, biblico cimento con l’angelo, riscatto della terrena carogna: «Ma chi festeggiavo? Il Dio celeste che mi cacciò e calpestò? / O me che lo combattevo? Chi dei due? Ambedue? / Quella notte, quell’anno / fino all’estinguersi della tenebra / stetti avvinghiato a lottare (Dio mio!) col mio Dio» ( Conforto della carogna). E come in Dante, questo intrecciarsi, questo «intuarsi» e «immiarsi» divinoumano fonde cielo e terra, per sempre: « The heaven-flung, heartfleshed », «il ciel-saettato, il cuor-inviscerato ».