domenica 12 giugno 2022
Nel romanzo-meditazione di Massimo Calvi uno sguardo che immagina l'altrove: scrivendo durante il lockdown ha trasfigurato una vicenda collettiva in apologo universale
Il ritmo della montagna, che dà forza e pace

Jannis Brandt / Unsplash

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Forse abbiamo già dimenticato, forse stiamo solo facendo finta. O forse ancora è così che doveva andare: il tempo passa e di certe cose si preferisce non parlare più. In effetti, L’uomo che guardava la montagna di Massimo Calvi non affronta mai il tema della pandemia, eppure è nel clima del primo lockdown che l’idea del racconto è nata, articolandosi subito in una successione di brevi capitoli scanditi lungo una dozzina di giornate. Tredici, per l’esattezza, perché l’eccedenza della vita e l’eccezione della speranza sono le direttrici più autentiche di un testo per molti aspetti indefinibile, non propriamente romanzo né solamente meditazione. Il tono complessivo è quello che si può ricavare già dai brani anticipati in questa pagina. Del protagonista non sappiamo nulla, se non che è immobilizzato su una sedia e che quella sedia è stata misericordiosamente sistemata davanti al paesaggio che l’uomo più ha amato e che ancora a- desso, nell’imminenza della morte, continua ad amare. In apparenza, nel libro non c’è nient’altro: l’uomo, la montagna, l’attesa della fine. In realtà c’è molto di più, c’è lo sguardo che si posa sugli eventi e sugli oggetti della quotidianità, risvegliando la memoria e restituendo significato a ogni dettaglio. E ci sono le parole, cadenzate come il passo del buon camminatore, capace di procedere con lentezza inesorabile e con caparbietà ammirevole. Per i lettori di Avvenire quella di Massimo Calvi è una firma nota e apprezzata. Formatosi come giornalista economico, è oggi caporedattore centrale del quotidiano. I suoi interessi si sono sempre concentrati su questioni di forte rilevanza sociale, dalla finanza etica alla crisi demografica, ma tra i colleghi non è mai stato un mistero che fosse appassionato di montagna. Nonostante questo, l’esordio da narratore ha sorpreso anche chi credeva di conoscerlo bene. Per la delicatezza e la profondità della scrittura, in primo luogo, ma anche per l’intuizione che gli permette di trasfigurare una vicenda collettiva in apologo universale. All’origine dell’Uomo che guardava la montagna sta appunto l’esperienza del confinamento domestico durante la primavera del 2020. Forse ce lo siamo dimenticati o magari stiamo solo facendo finta, ma allora il nostro rapporto con il mondo esterno passava per lo sguardo, costretto a soffermarsi sul panorama fuori dalla finestra. Come tutti, anche Calvi non aveva altro da vedere. A differenza dalla maggioranza, però, ha provato a immaginare di essere altrove e perfino di essere qualcun altro. Che è poi il modo in cui, da sempre, la letteratura permette di conoscere sé stessi.

L’ultimo desiderio di un uomo dal destino segnato

Pubblichiamo l’incipit del romanzo di Massimo Calvi L’uomo che guardava la montagna (San Paolo, pagine 184, euro 16,00).

Addio

È questa l’ora migliore per salutare la montagna. La sedia guarda a sud-est, come ti piaceva disporla quando riuscivi a farlo da solo. È stabile nonostante il prato penda un po’ a sinistra e una radice sollevi il terreno dove appoggiano le gambe. Ti hanno messo a sedere dolcemente, così che lasciandoti solo non avrai da chiedere. Guardi la massa rocciosa che domina la valle: una parete imponente di pietra divide la fascia scura dei pini dal cielo colorato a sera. Il copione è lo stesso da sempre: il sole si congeda, l’aria si impregna del profumo di una giornata sfinita, il cielo raccoglie l’energia per il gran finale, i sassi sono già velati di rosa. È adesso che le rocce si risvegliano, dopo aver sonnecchiato durante il giorno, e i loro contorni si fanno più definiti. Ricordi? La mattina uscivi prestissimo, per guardare dove si sarebbero fatti largo i primi raggi, aspettare il risveglio della tua porzione di valle, riempirti i polmoni e trattenere il fiato contando i secondi. Uno, due, tre... Ossigeno. Buttavi lo sguardo oltre le piante del giardino e al di là delle case vicine. Le foglie dei faggi e dei noci, la siepe di lauro, i rami pesanti degli abeti, i cespugli di ortiche. Gli uccelli cantano da ore. Manca poco. Anche la montagna ti sta salutando e percepisci l’abbraccio della grande conca che circonda il ghiaione. È il momento di andare, ma non si sentono i clacson suonare a festa. Solo le pietre piangono con te.

Massimo Calvi

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