venerdì 25 novembre 2022
Sotto l’esplosione di luce degli ultimi anni si nasconde la terra dei contadini della prima opera grafica. Due momenti di una stessa ricerca interiore
Vincent Van Gogh, “Autoritratto”, 1887 (particolare)

Vincent Van Gogh, “Autoritratto”, 1887 (particolare) - © Kröller-Müller Museum, Otterlo, The Netherlands

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A un certo punto mi ero stancato di Van Gogh, del suo mito di folle- veggente e del mercimonio che si era sviluppato fra anni 80 e 90 attorno alla sua opera, con mostre che nascevano come funghi per catturare decine, centinaia di migliaia di spettatori disposti a fare file alle biglietterie per ore e ore. Van Gogh insidiava questo primato a un altro gigante, anche lui se non folle certo déraciné, Caravaggio. Il mito di quest’ultimo, il “pittore maledetto” come piace tuttora ai sostenitori della vulgata romanzesca, regge bene il passare del tempo, ma in occasione dell’ultima mostra tenutasi a Palazzo Reale pochi anni fa, avevo invocato una sorta di moratoria. Speranza vana, ovviamente, anche se da qualche tempo il passo dell’industria culturale caravaggesca sembra aver un po’ rallentato: se si ripetono all’infinito le cose risapute su Caravaggio, anche i maratoneti del grand tour finiscono per stancarsi. E non sarà – o forse sarà – la scoperta di un Ecce Homo di notevole fattura, ma pieno di insidie e dubbi per i conoscitori, a suscitare una nuova interpretazione dell’opera caravaggesca, se non altro perché, quand’anche fosse a lui attribuibile, non sposterebbe di un ette la conoscenza di uno stile e di un modo di dipingere già ampiamente studiato da ogni lato possibile. La mostra di Van Gogh in corso al Palazzo Bonaparte di Roma (Capolavori dal Kröller-Müller Museum, fino al 26 marzo) non esce dallo schema fin qui conosciuto e messo a punto negli ultimi trent’anni dai re Mida del mito vangoghiano. La curatela è di Maria Teresa Benedetti e di Francesca Villanti, il catalogo è pubblicato da Skira, il nucleo delle opere è preso interamente dalla collezione del museo olandese Kröller-Müller. Una classica mostra “a pacchetto”, una delle tante proposte in Italia con una logica che ho spesso criticato, fino a indicare, per contrasto, la mostra di Max Ernst attualmente in corso a Palazzo Reale (una delle sedi che ha più incentivato le inutili iniziative “a pacchetto”), perché è un ottimo esempio di come si dovrebbero fare le mostre. La rassegna su Van Gogh è costruita secondo i canoni oggi in voga delle mostre corredate di stanze immersive, in questo caso un buco nero dove specchi ed elaborazioni digitali sui vortici celesti del pittore creano l’impressione di trovarsi all’origine dei mondi, che tanti potrebbero essere quante le galassie scrutate dallo stesso pittore nelle sue visionarie immersioni sotto la volta stellata. Lo spettatore non farà mai quell’esperienza perché lo sfolgorio di luci e colori fa sembrare la stanza una specie di discoteca dove si balla al ritmo delle immagini.

Vincent Van Gogh, “Uomo che avvolge il filato”, 1884 (particolare)

Vincent Van Gogh, “Uomo che avvolge il filato”, 1884 (particolare) - © Kröller-Müller Museum, Otterlo, The Netherlands

Eppure, si può scoprire qualcosa di buono anche laddove le premesse promettono poco. All’entrata, una stanza buia proietta immagini e notizie sul pittore e fa da drenaggio al pubblico che si sdoppia, chi a seguire la proiezione chi scivolando nelle prime sale. E qui, per quanto possa sembrare scontato in ragione della cronologia e della propedeutica espositiva, ecco che la serie dei disegni mi raggiunge come qualcosa di nuovo e mi spinge a pensare a quanto fosse bravo già attorno al 1880 Vincent quando inseguiva la sua idea espressiva: il bellissimo Seminatore proietta un’ombra sommaria sul campo arato che ha il gelido biancore di una superficie diafana sulla quale sono in fuga le linee dei solchi che accoglieranno il seme, ha l’allucinata espressione di chi, da rude contadino, conosce la fatica e il sudore anche d’inverno ma non perde mai l’attaccamento filiale al suolo che lo sfamerà: sullo sfondo un uccello in volo, un albero e una casa avvolti dalla foschia, e tutto si gioca più su quel bianco diffuso che sulla pesantezza del segno. Ugualmente, il contrasto fra la penombra della stanza dove una donna pela le patate e la luce del paesaggio invernale che entra da una finestra, come in un tableau-vivant ci fa vedere alcuni alberi che sembrano animare i loro rami senza foglie come in un racconto fantastico tipico delle saghe nordiche. Una natura morta con pentole, una bottiglia, una pipa e un cappello di paglia: è una delle sue prime prove pittoriche sul genere: Van Gogh sperimenta il colore stimolato da un cugino della madre, così come in una lettera spiega la scoperta dei valori del disegno eseguito dal vero. Ancora disegno nella Veduta dell’Aia, col tratteggio che rende alle case sullo sfondo un effetto di chiaroscuro quasi pittorico. La ricerca sulla ruvida bellezza della vita dei contadini torna ancora nel gruppo di donne che camminano sulla neve portando sulla schiena grandi sacchi di carbone, e in un ritratto di vecchio, parzialmente rovinato, che lo mostra sofferente mentre serra il suo volto contro i pugni, per esprimere quanto dolore prova; il colore emerge anche nella solitaria Capanna di torba dal contrasto fra l’inchiostro e la penna nera con l’acquerello variamente diluito che rende tutto in un bagno di luce al crepuscolo. Il segno a tratti si muove con sintetica sprezzatura, ma il tratteggio parla chiaramente dell’accanita ricerca tecnica di Van Gogh che in ogni disegno sembra rimettersi in gioco per acquisire nuove abilità. Un tema che ricorre in queste terre nordiche è quello dei tessitori. In un dipinto del 1884 Van Gogh rende la scena della tessitura come perfetta simbiosi di uomo e macchina, il lavoro come sapienza tecnica e austerità protestante, unificati nel colore marrone che emana luce con una studiata movenza dei toni dove legno del telaio, pavimento e pareti formano il grembo moderno che accoglie l’operaio mentre svolge la sua mansione. In primo piano il fuso con il filo bianco, segno luminoso che si distacca dal resto della tavolozza forse per testimoniare nel suo realismo il lato primigenio di quella materia che grazie alla tessitura entrerà a far parte del mondo quotidiano. Con un’accentuazione più dura, che spesso ritorna nel disegno, anche l’Uomo che avvolge il filato esprime il legame legittimante dell’uomo col suo lavoro in un’attentissima costruzione dello spazio e del tratteggio per differenziarne ombre e luci. Così, le contadine che piegate in avanti e puntellate nei tipici zoccoli che affondano nel terreno raccolgono il frumento, l’immancabile cuffia sul capo, ci ricordano che quella asprezza di vita e la fatica che comporta non sono diverse da quelle cui vanno soggette le bestie: nessuno sconto per le contadine, che anzi sono quasi equiparate ad animali da soma (mi fanno pensare ai disegni che Chagall eseguì giovanissimo rappresentando i contadini russi e il mondo animale con un’unica cifra espressiva). La loro sottomissione al lavoro è la rappresentazione più vera che potesse darci un occhio clinico ma anche umanissimo come quello di Van Gogh. Il tema delle donne è centrale nella sua opera del primo periodo e il colore fangoso e denso che lo contrassegna è l’elemento costruttivo di alcuni ritratti femminili (che ritroveremo nei Mangiatori di patate, qui rappresentati da una incisione) dove carne e terra, sangue e humus si compenetrano nella concezione della vita esposta alle forze naturali. Restano circa quattro anni a Van Gogh prima di lasciare questo mondo. Sono quelli, in particolare gli ultimi due, che lo hanno reso celebre per quel colore che sembra spremuto direttamente dal tubetto (come dicevano i critici degli impressionisti). Troppo si è detto e scritto perché si debba ricordarne l’ampiezza spirituale. Mi preme invece constatare che molto di quanto sappiamo di Van Gogh è fondato sulla convinzione che senza quegli ultimi anni la sua fama oggi sarebbe quella di un minore capace di eseguire un disegno altamente formalizzato ed espressivo, ma in definitiva qualcosa che apparterrebbe soltanto all’Ottocento e poco si avvicinerebbe al nostro sentire. Ecco, il dubbio è in questa domanda: sarebbe stato grande lo stesso? Per l’emozione che comunicano i suoi disegni ne sono convinto, ma so bene che nella cultura della “novità innanzitutto” saper esprimere con intensità il proprio genio non basta. Ogni anacronismo che resta fermo al talento che ci è stato consegnato risulta perdente di fronte al tribunali della storia. Ma lo stesso Van Gogh, per quella luce e lo sguardo profondo e interrogativo che ci lancia dal suo Autoritratto pare che dica: che cosa vedi in questo quadro, me o la mia pittura? So bene che la forza del nuovo ha il diritto della nascita dalla sua parte, ma per continuare a sentire l’uomo, prima che l’artista, nell’opera di Van Gogh tendo a una lettura umana più che umanista (direbbe Longhi) che trasforma anche il modo di guardare un’opera e il suo genio. I due periodi fondamentali della ricerca poco più che decennale di Van Gogh ci dicono che sotto nel colore vivissimo e scultoreo quasi, si celano ancora le terre dei contadini piegati sui campi a far fatica per procurarsi il pane. Vale a dire, due momenti di una stessa ricerca interiore, dove il disegno è come la notte per il giorno, come dire?, il grembo del colore.

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