domenica 7 gennaio 2024
La scienza ha imparato a modificare e allo stesso tempo verificare i propri paradigmi per dare una lettura più profonda della natura. Una rivoluzione tutta del Novecento
L'equazione di campo di Einstein

L'equazione di campo di Einstein - Artturi Jalli / Unsplash

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«A quelle che sembravano le questioni più semplici, siamo portati o a non dare risposta alcuna, o a darne tali che a tutta prima ci faranno pensare a uno strano catechismo più che alle precise affermazioni della scienza fisica», dice Robert Oppenheimer nel suo libro Scienza e pensiero comune. Colui che scrive, appunto, è diventato noto al grande pubblico quest’anno con la proiezione del film Oppenheimer di Cristopher Nolan, in cui lo scienziato americano guida il progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica. Le righe appena lette servono, nell’intenzione del loro autore, a identificare i meccanismi conoscitivi che uno scienziato deve superare per formulare nuove idee. Inizialmente è una guerra di resistenza, combattuta dalla confortevole zona delle consapevolezze acquisite, le quali però non si adattano più alle evidenze sperimentali che ci si può trovar di fronte. Ha inizio un processo di scontro tra mente e realtà, che è anche un processo di incontro con qualcosa che non si era notato, del tutto o in parte. Gli scienziati iniziano a identificare processi e proprietà degli oggetti in natura che non avevano fino a quel momento considerato. Così, spiegava Oppenheimer, alle domande se l’elettrone occupi sempre la stessa posizione oppure la cambi, o se l’elettrone fosse in quiete o in movimento, dobbiamo rispondere sempre «no». In effetti, il modello atomico cambiò profondamente con Bohr prima e con Sommerfeld poi, portando a concepire l’orbita come un orbitale, ovvero una funzione di probabilità associata all’elettrone che ruota attorno a un nucleo. Oppenheimer, e con lui tutti i protagonisti dei cambiamenti profondi della scienza nella prima metà del secolo scorso, fu testimone di come le teorie scientifiche svelarono un nuovo mondo naturale. Ciascuno di loro aveva in carico il portato conoscitivo delle scienze dei secoli precedenti e non potevano disfarsene rapidamente. Al contrario, lo usavano per comprendere meglio le novità. Cambiamento e conservazione, dunque, andavano a braccetto al passo adagio o rapido di chi incarnava quel legame, propendendo più per il primo o più per il secondo termine.

Le cose, però, non finirono qui. L’idea che la scienza potesse modificare le sue “verità” venne chirurgicamente sezionata, frammentata, analizzata e ne nacque una profonda reazione che cercò di coniugare la storicità intrinseca delle teorie scientifiche – dunque, il cambiamento – con l’esigenza di stabilire criteri veritativi utili a una conoscenza più duratura – dunque, la conservazione. La scienza che muta i suoi paradigmi assunse un potere analogico così potente che la nota concezione dello storico della scienza americano Thomas Kuhn trasbordò i meccanismi della conoscenza scientifica alla sociologia e oltre. Ne viene ancora oggi la domanda circa che tipo di conoscenza sia quella scientifica. Alcuni rispondono che essa è uno strumento per descrivere fenomeni, senza alcuna pretesa di realismo. È la concezione che, con diverse venature, da Francis Bacon in poi perdura oggi nel cosiddetto antirealismo scientifico. Di contro, c’è chi sostiene che il valore conoscitivo della scienza sia proprio nelle entità “non osservabili”, che spingono il lavoro di ricerca più avanti. Fu la posizione di Karl Popper, quando già Max Planck o Albert Einstein avevano abdicato all’idea di una scienza non impegnata sulla realtà. Si potrebbe riassumere questo quadro polarizzando il dibattito e facendolo suonare riduttivisticamente come opposizione tra approccio assolutistico, più consono a una visione positivistica, e approccio relativistico, più consono a visioni esclusivamente sociologiche della conoscenza scientifica. L’assolutismo è l’opposto del relativismo. Ma la storia della scienza del Novecento non insegna questo.

La composizione della polarità arriva seguendo un altro tragitto, che accoglie l’idea che la conoscenza scientifica funziona almeno per due motivi: perché intorno ad alcuni suoi risultati intere collettività di scienziati concordano; perché alcuni suoi risultati mostrano una efficacia applicativa – la tecnologia – che spesso trascende risultati parziali o non definitivi. La scienza procede per precisione e approssimazione al contempo, spinta dal motore della curiosità umana e dal bisogno di risolvere problemi astratti e concreti. Aver scoperto che la scienza cambia le sue teorie e lo fa modificando fondamenti e procedure ne ha svelato tratti che sfuggivano agli scienziati del secolo scorso: il sapere scientifico è sempre contestuale e riferito ai presupposti su cui una comunità scientifica giunge a concordare; esso è in qualche modo un’interpretazione della realtà naturale, sebbene un’interpretazione formale, spesso formalizzata; esso è sistemico ma anche capace di distinguere i domini di applicazione, nonché i propri oggetti e metodi. L’elenco potrebbe proseguire ma ci limitiamo a questo perché basta a mostrare come la conoscenza scientifica sia conoscenza di verità scientifiche unitamente alle loro stesse condizioni di verità. Tali condizioni sono sottoposte a un processo di inveramento, progressivo e aperto, sollecitato da donne e uomini che non si dovrebbero mai accontentare del sapere ricevuto. Al contrario, consapevoli che le condizioni cambiano, si sa che la realtà è qualcosa di dato all’infuori di noi; si sa che le proprie visioni sono superabili, ma ricevono senso nell’essere capite e usate dalle giovani generazioni in modo fruttuoso e ordinato al bene comune. Il prodotto residuale di questo processo è ciò che unisce tra loro e con la natura donne e uomini di scienza, di ogni tempo e di ogni luogo: ovvero, l’evidenza che il mondo sia intellegibile, donato alla nostra mente, affinché possiamo goderne e condividerlo.

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