venerdì 24 maggio 2019
Nel nuovo libro il filosofo riflette sull’attesa del Regno e su come l’agone sociale renda possibile la sua costruzione con la cura del bene comune
L'affresco della “Scuola di Atene” di Raffaello

L'affresco della “Scuola di Atene” di Raffaello

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Aveva ragione Baudelaire, quando in uno dei suoi pensieri colse appieno l’essenza della Modernità: «Teoria della vera civiltà. Non consiste nel gas o nel vapore o nei tavolini parlanti, consiste nella dimenticanza del peccato originale ». E se non esiste più questa coscienza della colpa, insita nell’uomo sin dall’inizio, sparisce completamente anche l’idea di salvezza, di redenzione. È questo uno dei presupposti del nuovo libro di Salvatore Natoli, Il fine della politica. Dalla teologia del regno al governo della contingenza (Bollati Boringhieri, pagine 130, euro 15) che sarà presentato lunedì prossimo al teatro Franco Parenti di Milano dall’autore con Davide Assael.

Il filosofo noto per i suoi saggi sul dolore e sulla felicità, nonché per le sue numerose interlocuzioni, da non credente, col mondo dei credenti (memorabili alcuni suoi confronti con personalità come il cardinal Martini, il biblista Sergio Quinzio o il monaco Enzo Bianchi), in questo volume si interroga sul destino della politica, ma in realtà la sua esplorazione riguarda tutto il percorso dell’umanità. A partire dall’idea di éschaton o éschata, “le cose future”, sorta nell’ambito del giudaismo ma riadattata dal cristianesimo e il cui influsso ha segnato in maniera decisiva tutta la storia dell’Occidente, dal Medioevo alla Modernità.

In realtà già Omero ne parla e se ne serve per definire «ciò che sta fuori», cioè «il più lontano, l’estremo». Nella Bibbia invece per i profeti designa la fine dei giorni e così nei Vangeli e in Paolo, ove emerge un concetto di tempo come promessa e compimento. I primi cristiani com’è noto attendevano un ritorno se non immediato assai ravvicinato di Gesù e si aspettavano che si compisse la promessa della salvezza e la cancellazione del male dalla faccia della terra. Commenta Natoli: «Il cristianesimo, nella sua essenza, non in altro consiste se non nell’annuncio del regno di Dio. Esso è già venuto con la venuta di Cristo nel mondo, tuttavia non si è ancora manifestato nella sua pienezza, (…) tant’è che il regno è ancora da invocare, anzi è la prima cosa da chiedere: venga il tuo regno».

L’éschaton è allora l’aver fede che nel futuro si adempirà quanto è stato promesso: di qui la felice formula “già e non ancora” che viene applicata alla Chiesa, che vive in sé la dimensione della salvezza ma ne attende la piena realizzazione. Col passare dei decenni e dei secoli, il tempo dell’attesa si è dilatato dato che la storia prosegue il suo corso, ed è esattamente questo il tempo della po-litica: inevitabile, da Paolo in poi, il tentativo di definire il rapporto fra la Chiesa e il potere, assieme alle prime formulazioni di una teologia della storia.

Natoli dedica diverse pagine alla questione del katéchon, quella potenza che trattiene il dilagare del male, ma al contempo impedisce il manifestarsi pieno del progetto di Dio sull’umanità. Già nell’antichità essa fu identificata da alcuni teologi con l’impero romano (c’è chi vide in Nerone l’Anticristo), ma perlopiù esso rimase, e rimane, un’entità misteriosa e indefinibile. Sta di fatto che i cristiani si trovarono sempre più immersi nel loro tempo e costretti a fare i conti con le potenze mondane.

Fu sant’Agostino a elaborare la prima vera e propria teologia della storia nel De civitate Dei. Il vescovo di Ippona vedeva il potere politico come una realtà che ha il compito preminente di contenimento del male, mentre Tommaso d’Aquino nei secoli successivi gli assegnerà una funzione positiva: il perseguimento del bene comune. In un saggio uscito in America nel 1949 e in Italia edito dal Saggiatore, Significato e fine della storia, il pensatore tedesco Karl Löwith scriveva: «L’impossibilità di elaborare un sistema progressivo della storia profana sulla base della fede ha la contropartita nell’impossibilità di tracciare un piano significativo della storia mediante la ragione. Ciò è confermato dal senso comune: infatti chi oserebbe pronunciare un giudizio definitivo sullo scopo e sul senso degli eventi contemporanei?».

Non molto diversamente sembra pensarla Natoli che però, pur prendendo atto del processo di secolarizzazione e della trasformazione dell’éschaton cristiano nell’utopia razionalistica e illuministica, continua a pensare che pure le società contemporanee abbiano una riserva di futuro, anche se ormai solo terreno. La legge del progresso, grazie alla quale si trasferiva all’operatività umana – alla scienza e alla tecnica in primis – la possibilità di progettare il futuro, già ai tempi di Voltaire si scontrava tuttavia con l’inesorabilità del destino: è noto lo sconcerto dei philosophes dinanzi alla tragedia del terremoto di Lisbona. E se è vero che la dimenticanza dell’éschaton è stata resa possibile in primo luogo per colpa della Chiesa, divenuta nei secoli passati sempre più «una grande macchina organizzativa che ha modellato la vita delle persone» perdendo di vista la dimensione spirituale, è altrettanto vero che l’utopia del cambiamento dell’uomo e della società ha generato mostri come i totalitarismi. Lo sguardo di Natoli si fa più disincantato: «Sono in tanti – scrive – a sostenere che il tempo della politica è, ormai, finito; e certamente lo è, se la politica la si pensa ancora in termini novecenteschi. Il Novecento, in particolare la prima metà, non è stato solo un tempo politico ma un tempo dell’iperpolitica».

Ciò nonostante, egli indica ancora una possibilità: «Se non c’è più alcuna “fine” da attendere, è necessario attendere alle cose del mondo, prendersele in carico». Compito della politica è allora la giustizia, la pace è moderare i conflitti, provvedere al benessere. Se essa ha perduto il senso dell’éschaton, mantiene un telos, vale a dire un fine. E questo può costituire un terreno di azione comune per credenti e non credenti che vogliano ancora impegnarsi nell’azione politica. Così Natoli può concludere: «È in forza della comune umanità, della pietas che lega tra loro uomini e popoli, che la specie mortale può salvarsi. Ora, cosa più della politica deve provvedere a ciò che è comune? Liberaci dal male è un’invocazione che si rivolge a Dio e per chi crede lo è ancora. Ma cos’altro è la realizzazione del regno, se non questo?».

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