martedì 6 giugno 2023
Il club di De Laurentiis ha monopolizzato i canali Rai e prolungato i festeggiamenti in uno spettacolo che non rende onore alla alla cultura di una città sempre stereotipata dai vecchi luoghi comuni
La Curva dello stadio Diego Armando Maradona di Napoli

La Curva dello stadio Diego Armando Maradona di Napoli

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Ho pensato e ripensato se scrivere o meno questo pezzo. Alla fine mi sono smarcato e ho deciso che doveva essere la coda supplementare alla mia rubrica Pensare con i piedi che, dopo 38 giornate di campionato, dà appuntamento alla prossima stagione calcistica. Chi scrive, senza nessun secondo fine, e senza essere affetto dalla pandemica invidia tifosa, dopo un mese abbondante non sopporta più la retorica della festa ad oltranza inscenata sotto il Vesuvio, con finale pirotecnico nel tempio laico dello stadio Diego Armando Maradona. “Uno scudetto non cancella i mali di Napoli”, questo lo diceva sornione il grande Massimo Troisi quarant’anni fa, invitando poi il popolo a non dimenticare di chiudere l’acqua e il gas prima di scendere a festeggiare quel primo storico scudetto, stagione 1986-’87. Ma una città che si sente campione d’Italia, che necessità ha di farsi presentare al mondo ancora come una piccola gomorra, dai panni stesi per i rioni del centro storico e gli scugnizzi che viaggiano in tre e senza casco sopra uno scooter? E poi, quello show infinito da televendite, da televisione privata anni ’80 e che per due serate invece ha monopolizzato il nostro beneamato servizio pubblico. Dopo la festa bis del Maradona (prima c’era stato il classico Gigi D’Alessio night da Piazza Plebiscito) diretta Rai in prima serata, “la domanda sorge spontanea”, direbbe un napoletano illuminato (di Procida) come Antonio Lubrano: ma ai napoletani piace davvero questo terzo scudetto venduto in salsa trash? Possibile che per raccontare Napoli e la sua squadra che torna a vincere un titolo nazionale dopo 33 anni c’è sempre bisogno della solita sceneggiata? E neppure meroliana, che quella sarebbe anche artistica, almeno secondo tradizione. Mai una immagine del Duomo e del tesoro di San Gennaro proiettata in questi giorni, mai un frame da Capo di Monte, le sculture di Gemito o i Pulcinella artistici dei fratelli Scuotto. Ormai l’unico tesoro vivente è l’ex nemico giurato del popolo dei masanielli: il cinepresidente Aurelio De Laurentiis. Lui e i suoi gioielli della squadra, che fu di Luciano Spalletti, sono i santini della città e lo resteranno per sempre. Eternati come i murales dedicati a eupalla Maradona che, per fortuna, non sono opera di Bansky, almeno quelli. E poi queste kermesse con karaoke da matrimoni in “coppa” agli alberghi di Posillipo. Quando il Napoli vinse il primo scudetto, la colonna sonora era la voce e il blues di Pino Daniele e sulla città-teatro aleggiava ancora l’anima di Eduardo De Filippo (morto nel 1984). Il film Azzurro aveva per protagonista l’ironia e la comicità insuperata di Massimo Troisi che, anche oggi, è più vivo di qualsiasi guitto partenopeo iscritto all’Enpals chiamato ad esibirsi nelle due feste del Napoli. Massimo rispetto per tutti, ma questi tris d’assi appena citati sono stati sostituiti con quelli presi dal mazzo misero e con poca nobiltà: D’Alessio, Biagio Izzo, Paolantoni, De Martino. De Laurentiis dalla sua chiesa, ex San Paolo ora Maradona, dove vuole celebrare matrimoni, cresime e comunioni, è passato anche alle conversioni: la lucana Arisa e la salentina Emma si professano supertifose del Napoli. In città è arrivata la “Bobo Tv”, ultima frontiera social del “calcio intellettuale”. Siamo in piena sintonia con il supertrash partenopeo, la Bobo Tv affidata alla direzione del luminare Bobo Vieri, il paraguru Lele Adani e i due opinion leader baresi, Antonio Cassano e Nicola Ventola. Ali di folla in tripudio con eserciti del selfie schierati al passaggio di questi re magi dell’informazione calcistica. Ma dove sono i nuovi La Capria, gli Ermanno Rea, perfino i Luciano De Crescenzo? Dove vivono e cosa pensano di tutto questo le menti più fertili di Napoli che Pasolini considerava l’ultimo avamposto della civiltà italica e con ammirazione disse: “Napoli è una tribù che ha deciso di non arrendersi alla cosiddetta modernità, e questo suo rifiuto è sacrosanto”. Ma questo non è più vero. Anche Napoli si è piegata alla modernità, semmai rifiuta di smarcarsi dai luoghi comuni e da quell’estasi del pecoreccio che è il risultato di una regia precisa, quasi chirurgica. Corrado Ferlaino, il presidente dei due scudetti del Napoli era ancora un personaggio che non si era arreso alla modernità. Il Napoli di De Laurentiis è una serie televisiva (il supertifoso Paolo Sorrentino è già allertato), come quelle che sforna mensilmente nei suoi romanzi Maurizio De Giovanni, che è stato un giovane tifoso di quel Napoli di Maradona, e che oggi, come tutti, non può che salire sul carro del vincitore, unico. Il Cinepresidente non ha vicerè, è il dominus assoluto di una città alla quale sta vendendo panem et circenses. E gli spettatori imbambolati, i tifosi acritici (basta che si vince) vogliono continuare a festeggiare, come dei ciucci. Senza offesa. Prima dell’avvento della modernità e delle seconde maglie camouflage - come le anime nere della città - , il Napoli era la squadra del Ciuccio.

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