martedì 29 gennaio 2019
L’“Aida” è l’esempio lampante del malinteso di cui è vittima: «La “grandeur” del trionfo si è riversata su tutta l’opera» Per il maestro è «musica da camera»
Muti: «L'eleganza di Verdi fraintesa dalla cattiva tradizione»
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Per Riccardo Muti, Aida è l’esempio lampante di quanto le partiture verdiane siano state fraintese dalla tradizione esecutiva – «cattiva tradizione», a suo dire. Aida gli pare vittima di un clamoroso malinteso: la grandeur della scena del trionfo si è riversata sull’intera opera, falsandone il carattere generale di dramma psicologico dalle sonorità cameristiche.

Maestro Muti, lei sostiene che Aida è musica da camera. Quel che dice vale per la strumentazione e anche per il canto?
Certo. Pensiamo a “Celeste Aida”: pensiero, sogno, raccoglimento di un innamorato, non espressione di un guerriero vociante. Eppure ancora rammento quando, da studente, ascoltai alla Scala un tenore che sparò il si bemolle finale a pieni polmoni, tra l’ebbrezza dei loggionisti che gridavano «bravo, bravo». Invece quell’acuto è scritto pianissimo, morendo, sui violini divisi che trillano in trasparenza, mentre il flauto arpeggia ai limiti dell’udibile. Solo che il pubblico è stato abituato a pretendere tutt’altro. Al punto che, quando una volta, a Parma, Carlo Bergonzi cantò tutto come scritto, fu lapidato dal teatro che gli gridò, in segno di spregio, «Tajoli». A fine recita volle mostrare lo spartito ai contestatori per far vedere che era nel giusto; solo che loro, sprezzanti, gli replicarono «Verdi sbagliava».

Un altro esempio: il duetto Aida- Radamès, dove le linee vocali di «Fuggiam gli ardori inospiti » si muovono tra sotto voce, dolcissimo, pianissimo, estremamente piano. Orchestra e voci sembrano impalpabili…
Se tali indicazioni fossero scritte da Wagner e Strauss, ogni interprete le osserverebbe con devozione. Solo che l’opera italiana ha patito l’offesa di non essere considerata un fatto culturale. Penso a un esempio che si può trovare in rete, su You-Tube. È la scheggia audio del terzo atto di un’Aida napoletana con Giangiacomo Guelfi nel ruolo di Amonasro. Quando il confronto con la figlia raggiunge il culmine, lui si spolmona: «Non sei mia figlia! / Dei faraoni tu sei la schiava!». Lunga sosta sull’acuto, sulla o di faraoni, e anche sul sei che lo segue. Per giunta schiava è emesso come un grido belluino. Viene giù il mondo: battimani, baccano compiaciuto da parte del pubblico che pretende il bis della frase.

Però il direttore Gabriele Santini non ne vuol sapere. Manda avanti l’opera malgrado la gente in tumulto pretenda di ascoltare ancora quell’apoteosi di machismo trucido. È una registrazione del 1954 all’Arena Flegrea, con l’Orchestra del San Carlo e Anita Cerquetti protagonista. Se questo è un esempio di cattiva tradizione, qual è invece un’edizione che lei giudica di riferimento?
L’esecuzione esemplare non esiste. Cambiano le epoche, gli animi, il gusto. Tuttavia credo che Aida di Toscanini si avvicini parecchio all’ideale verdiano per asciuttezza, essenzialità, articolazione della parola intesa come mezzo d’espressione drammatica. Sebbene non sia da imitare nei tempi, penso che la registrazione toscaniniana vada presa a modello per il concetto di fedeltà al testo che persegue, talvolta perfino eccessiva. Il che non significa fornirne una lettura arida, ma riuscire a rivelare la verità celata dietro al segno, senza alterarlo.

Nel suo libro Verdi, l’italiano: ovvero, in musica, le nostre radici, si legge: «Verdi è uno dei compositori più raffinati ed eloquenti. Il dubbio che rimane aperto è: evidenziando l’eleganza, in quale misura si priva Verdi dell’accento verdiano?». Ha maturato una risposta a questa domanda?
Intanto rispondo che non concordo affatto con chi pensa che il primo Verdi sia un musicista rustico, al lambrusco. Quando le orchestre tendono a suonarlo alla maniera bandistica, io chiedo, per esempio ai Wiener Philharmoniker: «Fosse Schubert, lo fareste cosi?». D’altronde Verdi non ha alcun bisogno di essere nobilitato, è già nobile. È scolpendo il ritmo intriso di significati drammatici che si evidenzia l’autentico accento verdiano, nel quale risiede la verità del sentimento della musica. L’effetto grandioso si raggiunge tramite l’analisi delle minuzie, che in Verdi determinano sempre la costruzione del dramma. Per lui vale il motto cum parvis componere magna.

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