sabato 14 luglio 2012
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​Quando il soffio dell’Ave verum<+tondo> riempie il Pala De André i programmi di sala e i biglietti del concerto che per quasi due ore il pubblico ha sventolato per cercare sollievo dal caldo improvvisamente si bloccano a mezz’aria. Il tempo si ferma. Giusto i tre minuti che dura il brano di Wolfgang Amadeus Mozart. Certo, poi la vita riprende. Fuori, in Nigeria, ci sono cristiani che vengono ammazzati nelle loro chiese. Fuori, in Siria, ci sono civili che cadono sotto i colpi del regime. Fuori, in Cina, ci sono uomini e donne perseguitati per le loro idee. Ma per tre minuti pensi che davvero la musica abbia fatto il miracolo. Perché vedere – e sentire – i sacerdoti della Fraternità San Carlo Borromeo, i monaci del monastero serbo bizantino di Kovilj e i lama tibetani di Drepung Loseling intonare insieme l’Ave verum ti fa toccare con mano quella «tensione dei popoli verso la pace» come la chiama dal podio Riccardo Muti.Questa aspirazione il direttore d’orchestra negli anni l’ha raccontata in musica sulle Vie dell’amicizia che lo hanno portato a Sarajevo e Gerusalemme, a Mosca e New York, in Egitto e in Siria sino, giusto un anno fa, in Kenya tra i missionari italiani. In questo 2012, l’anno della crisi – economica, certo, ma forse anche crisi delle nostre radici – Muti lo ha detto a Ravenna, la città dove il viaggio è partito nel 1997 e dove l’altra sera è approdato. Perché se prima è stato il Ravenna festival ad andare nel mondo oggi è il mondo che si è dato appuntamento nella città romagnola. Per quello che Muti ha chiamato Concerto delle fraternità, facendosi voce tra le voci.Capisci subito che quella che segna la chiusura dell’edizione 2012 del Ravenna festival non sarà una serata come le altre. I religiosi bizantini nelle loro tuniche nere e i lama con campane e corni tibetani entrano in scena dalla platea, per dire che quello che sta per iniziare sarà un momento corale. Sul palco ci sono i ragazzi dell’Orchestra Cherubini e dell’Orchestra giovanile italiana, ma anche i cori della Stagione armonica, del Friuli Venezia Giulia e del Patriarcato ortodosso di Mosca. Muti da il la, i corni risonano e su uno schermo appare il Dalai Lama che ricorda come «tutte le maggiori tradizioni religiose del mondo condividono l’esercizio dell’amore e della compassione».Tocca poi alla musica che Muti fa diventare preghiera: con le parole della liturgia nel Te Deum di Franz Joseph Haydn, ma anche con le parole dell’uomo tormentato di fronte al dolore e al futuro nella Rapsodia per contralto e coro maschile (il testo è di Goethe, la voce quella piena di Ekaterina Gubanova) e al Canto del destino (qui i versi sono di Hölderlin) di Johannes Brahms. E tra una pagina e l’altra – Muti non lascia mai il palco, ascolta concentrato – ecco il canto gregoriano nell’antifona Memorare, ma anche il basso profondo moscovita Vladimir Miller che intona il Cantico di Simeone: «Ora lascia o Signore» si veste di note gravi che tanto somigliano a quelle con le quali la nepalese Ani Choying Drolma intona il suo mantra, ma anche alle litanie che animano le celebrazioni pasquali in Sicilia del Memento Domini di Mussomeli. Voci che diventano una sola voce nell’Ave verum che Muti dirige per la seconda volta – con in collo una sciarpa bianca regalatagli da Jetsun Pema, sorella minore del Dalai Lama – chiedendo al pubblico di unirsi al canto «per creare da tante diversità una sinfonia».
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